Arnolfo di Gap
Nato a Vendome e educato nel monastero della S.ma Trinità di questa città, fondato nel 1032 da Goffredo Martello, ricevette l'abito benedettino dalle mani dell'abate Oderico che poi lo condusse con sé a Roma. Lo scopo del suo viaggio era duplice: ottenere per l'abbazia francese la conferma della cessione della chiesa romana dedicata a S. Prisca e, similmente,
per il SUO abate una
conferma del titolo di cardinale prete di S. Prisca. Durante la missione le
qualità di Arnolfo non passarono inosservate.
Nel 1063, il papa Alessandro II, dopo averlo più volte onorato con richieste di
consigli, lo nominò vescovo di Gap, in luogo del simoniaco Riperto,
consacrandolo lui stesso. La sua vita è stata scritta, agli inizi del sec. XIII,
da uno sconosciuto monaco di Vendome che illustra specialmente i prodigi e i
miracoli compiuti dal santo.
Arnolfo morì tra il 1070 e il 1079 e la sua festa è fissata al 19 settembre. E' patrono della diocesi di Gap.
il sito di Orval
The first monks to settle in Orval arrived from the south of Italy in 1070. Count Arnould de Chiny, lord of the manor, welcomed them and granted them land from his own domain. Construction was immediately begun of the church and conventual buildings.
For reasons we do not know these pioneers moved away after about forty years. Othon, son of Arnould, replaced the monks by a small community of Canons who were able to complete the construction work begun by their predecessors ; in 1124 the completed church was consecrated by Henri de Winton, Bishop of Verdun. Soon afterwards, however, the Canons ran into economic difficulties, a situation which led them to request affiliation to the Order of Cîteaux, at that time in full expansion. Their request was transmitted to Saint Bernard who accepted it. He entrusted the re-establishment of Orval to the eldest of his daughter-houses, the Abbey of Trois-Fontaines in Champagne.
Il luogo è stato occupato fin dal periodo merovingio ma ci sono tracce di una preesistente cappella del X secolo. Nel 1070, un gruppo di monaci Benedettini provenienti dalla Calabria si stabilì qui, su invito di Arnould conte di Chiny, e iniziarono la costruzione di una chiesa e di un monastero;
dopo circa quarant'anni però, probabilmente a causa della morte del conte Arnould, si recarono altrove. Furono rimpiazzati da una comunità di Canonici, che completarono i lavori: la chiesa fu consacrata il 30 settembre 1124.
Nel 1132 arrivò un gruppo di monaci cistercensi dell'abbazia di Troisfontaines nella Sciampagna e i due gruppi diedero vita ad una singola comunità
di ordine cistercense, sotto la guida del primo abate, Constantin.
Attorno al 1252, il monastero fu distrutto da un incendio; la ricostruzione richiese circa cent'anni.
Tra il XV e il XVI secolo, le varie guerre tra Francia e le regioni circostanti (Borgogna e Spagna) ebbero un forte impatto su Orval.
Fu dapprima edificata una fonderia all'interno dell'abbazia; poi, nel 1637, durante la Guerra dei Trent'anni, il monstero fu saccheggiato e bruciato
dai mercenari francesi.
Nel corso del XVII secolo, l'abbazia aderì alla branca dei Trappisti dell'Ordine Cistercense, ma si riconvertì nuovamente
alla Regola di San Benedetto attorno al 1785.
Nel 1793, durante la Rivoluzione Francese, l'abbazia, rea di aver ospitato le truppe austriache, fu completamente data alle fiamme
dall'esercito francese e l'intera comunità fu dispersa.
Priori
1059 1078 Basilio
1078 1082 Arnolfo
1082 1089 Guglielmo
1090 1090 San Bruno
1090 1111 Rangerio
Il 4 febbraio 1083 papa Ildebrando, Gregorio VII, emana la bolla Supernae Miserationis, che crea la diocesi di Mileto, sulla base della soppressione della precedente, che era quella di Vibona. Nel 1086, col diploma Sigillum aureum, il Gran Conte Ruggero assegna ad essa ed all'episcopio territori, possessi, giurisdizioni e diritti di chiese comprese tra Maida e Reggio; diploma questo che fu seguito da altro del 1091 con il quale venne anche assegnato alla Chiesa vescovile di Mileto il feudo di S. Agnese nel territorio di Squillace. Papa Urbano II infine con la bolla Potestatem ligandi del 3 ottobre 1093 aggrega a quella di Mileto la diocesi di Tauriana i vescovadi di Vibona e di Tauriana vengono così soppressi. Il vescovo di Mileto, fin dal 1083, non viene addirittura sottoposto ad alcun metropolita, dipendendo la diocesi direttamente dalla Santa Sede. Primo vescovo è eletto Arnolfo.
Nel contempo Ruggero favorisce la venuta in Calabria di Brunone di Colonia, fondatore dell'ordine dei Certosini, disposta da Urbano II. Intorno a quella che sarà Serra San Bruno sorge la Certosa di Stefano del Bosco. Di San Bruno del resto il Gran Conte divenne grande amico, e di questa amicizia rimase fino al Settecento, nell'antica Mileto, una tradizione, che via via col tempo si era andata arricchendo di elementi leggendari e sentimentali, frammisti a quelli teali, Scrive una memorialista appunto del '700, il Piperni, in un manoscritto inedito: " E San Bruno, ancor vivente, che l'era assai caro (a Ruggero), et amicissimo, li comparve in sogno nell'assedio di Capua, liberandolo dall'insidie, e tradimenti, che pensava ordirgli Sergio Capitano de' Greci; tanto che memore di questi sì segnalati beneficii, non solo prese per speciale Protettrice la SS.ma Vergine Maria, ponendo la sua Santa Immagine nelle monete dall'una parte, e dall'altra l'immagine di sé medesimo a cavallo in atto dì combattere come vi ne sono al presente: et in altre monete, et impresse l'immagine di detta Nostra Signora coll'iscrizione, Dextera Domini fecit virtutem. Dextera Domini exaltavit me: ma mandò in dono a detto Papa Nicola II quattro cameli, carichi di preziose spoglie e, di vantaggio per tutta la Sicilia, Calabria, ed in tutto il Regno di Napoli, fondò, dotò, ed arricchì moltissimi Monasteri, Basiliche, e Vescovati, e fece moltissime altre Magnifiche fabbriche; e nobilitò con munificenza Reale detta Gran Certosa con amplissimi Privilegi (sic.), ed esenzioni colmandola di vastissime rendite, e vassallaggio Baronale di più terre, e villaggi, e per lo spirituale coll'esenzione Nullis Dioecesis da mano del Papa".
In questo tempo la conquista normanna in Sicilia è avanzatissima. Secondo il Malaterra, cronista della vita di Ruggero, a Mileto il Gran Conte riceve la resa formale di Messina nel 1071, essendo ambasciatori della città Niccolò Camuglia, Giacomo Saccamo, Mercurio Opizinga ed Ansaldo da Patti. Segue nel 1090 la resa di Neto e di altra parte della Sicilia.
Lo splendore della Corte è intenso, finissima l'architettura dell'Abbazia della SS. Trinità, carissima a Ruggero, il quale per essa ha fatto trasportare dalla greca Hipponium (l'odierna Vibo Valentia) le colonne del tempio di Proserpina. Finissima la monetazione, ricordata dal Muratori nelle sue Antichità Italiane, e che con qualche giustezza vari autori raffrontano con quella di età greca di Terina, di Petelia e di Caulonia. Essa si compone di pezzi in argento (denaro, mezzo denaro, frazione di denaro) e in bronzo (trifollaro, doppio follaro, follaro, mezzo follaro)
Con gran sfarzo e con gran "contentamento di popolo"[9] si svolgono nel 1061 nella città le nozze di Ruggero con Eremburga, sorella di Roberto, abate nel monastero di Sant'Eufemia, più tardi eletto alla cattedra vescovile siciliana di Troina. Eremburga però muore nel 1088. E il Normanno si risposa per la terza volta con Adelaide, nipote del marchese Bonifacio del Vasto, che nel 1097 o 1098 gli dà il figlio Ruggero lI, il quale sarà più tardi primo re di Sicilia e di Napoli.
La nascita a Mileto di Ruggero Il è testimoniata dal Malaterra. Naturalmente avversi al cronista sono per questo particolare evento gli storici siciliani, sia pure con qualche eccezione, ovviamente propensi a fare della Sicilia il luogo di nascita di Ruggero. A questo proposito però non dà luogo a dubbi l'inno di Fra Maraldo riferito al battesimo di Ruggero, tenuto in San Martino da San Bruno, essendo testimone un nobile normanno, il Lanuino[10] .
Nel medesimo anno della nascita di Ruggero II, papa Urbano lI visita la corte del Normanno. Sono ormai lontani i tempi in cui il papato andava alla ricerca di compromessi con il Gran Conte e comunque avversava la politica di questi volta a creare diocesi, che tuttavia, come a Mileto, venivano puntualmente riconosciute dalla Santa Sede. Il concilio di Melfi del resto, già nel 1089 aveva proceduto ad una ratifica delle conquiste normanne, anche se Ruggero non vi aveva partecipato, impegnato com'era nell'opera di consolidamento della conquista siciliana, ormai pressoché completa. Il 22 giugno 1101 il Gran Conte viene a morte proprio nella sua residenza preferita, quando però ormai non solo aveva completato la conquista della Sicilia, ma avendo altresì affermato la sua potenza ed il suo prestigio, ereditandoli dal fratello Roberto il Guiscardo, anche nei rispetti dell'altro normanno, suo omonimo, Ruggero Borsa, duca di Puglia e di Calabria. Un tumulo venne eretto nel cimitero dell'Abbazia della SS. Trinità, con l'epigrafe che recava: "Linguens terrenas migravii Duc ad amoenas/Rogerius Sedes nam Coeli detinet aedes".
La vedova Adelaide assume la reggenza per conto del figlio Simone, e resta ancora preferibilmente nella cittadina. Nel 1105 viene però a morte anche Simone, e la successione passa al minore Ruggero, il quale non sarà maggiorenne che nel 1113.
Nel tempo della reggenza, Adelaide, dopo aver soffocato in sul nascere, con forza ed anche con crudeltà, alcuni tentativi insurrezionali, continuò a praticare una politica di cauto raccoglimento. Papa Pasquale Il l'aveva confortata della sua visita subito dopo la morte di conte Ruggero nel 1102. Qualche anno più tardi però essa sposta il centro normanno di residenza da Mileto a Messina, ch'è ormai più atta a controllare i domini normanni di Sicilia e di Calabria. Il secondo Ruggero, ancora conte, continua a volte a risiedere a Mileto, dopo entrato in possesso dell'eredità paterna. In particolare ciò avviene spesso durante l'attacco che egli sferra intorno al 1121 ai possessi calabresi rimasti ancora in dotazione al duca Guglielmo.
Ed è del resto nel luglio di quest'anno, proprio nel tentativo di conciliare i due avversari, che Callisto I scende in Calabria e, nell'occasione, consacra l'Abbazia e la Chiesa della SS. Trinità. La capitale della contea di Calabria e di Sicilia è tuttavia ormai stabilita nel suo ambito naturale, a Palermo
(dove Ruggero Il sarà incoronato re di Sicilia nel 1130), fin dal marzo-giugno 1112, essendo ancora reggente Adelaide.
Non è da credere che durante la permanenza di Ruggero I (detto Bosso per la sua corpulenza), Mileto sia stata più che una cittadina, ancorché ingrandita, ingentilita ed abbellita dalla corte del Normanno, e dalla multiforme attività che si svolgeva nella cerchia delle sue mura. Il Gran Conte era però ad essa particolarmente attaccato, e qui subito si rifugiava durante le soste concessegli dalle fatiche della guerra e dai continui spostamenti da quella determinati.
La città era allora posta in sito diverso da quello che ci viene descritto nelle memorie settecentesche, alla confluenza tra il fiume detto "dell'acqua calda" ed un ruscello detto Schiattino. Proprio in questa confluenza, in particolare si aveva la Piazza Maggiore ed il corpo centrale della città, legato alle opposte rive da un ponte. I quattro quartieri, e cioè quelli della Cattolica, di Sàccari, del Vescovado e del Castello, erano circondati da mura, mentre proprio al centro doveva collocarsi la cappella di San Martino, nella quale, come abbiamo riferito, venne battezzato Ruggero Il; dato di fatto questo che risulta da due carte di donazione concesse da Ruggero ai Certosini di S. Stefano del Bosco, redatte "in cappella Sancti Martini, quae sita est in medio Civitatis Mileti ".
S'è detto della istituzione della diocesi, che recò con sé più tardi l'erezione della cattedrale dedicata a San Nicola da Bari, e del tempio della Badia, veramente splendido e ricco di marmi e di colonne greche; se detto anche della zecca. Nulla si conosce invece del sito dove sorgeva il palazzo di residenza del Normanno, che naturalmente doveva essere assai ampio e ricco, e insomma adeguato alle condizioni di corte offerte da un potentissimo principe. Della stessa corte si sa che facevano parte ostiari e mistocleti, nominati da Ruggero (così, per l'anno 1086, come risulta da tin diploma dello stesso Ruggero, ostiario di Mileto è un Nicola, mistoclete un Nicocle), mentre nella città coorti di servi, di angari e di perangari erano dominati dai guerrieri al seguito del Normanno, il quale, non si dimentichi, aveva il suo pensiero fisso alla guerra di espansione, a quella guerra di espansione che in ultima analisi doveva fruttare alla dinastia normanna la conquista e la creazione di un regno.
Dubbia è per questo tempo la consistenza numerica degli abitanti della città. Le cifre fin qui avanzate danno sempre motivo a qualche perplessità. Il centro doveva essere piuttosto grosso, se si considera che il Normanno l'aveva prescelto a sua sede. E d'altra otto diecimila abitanti per il tempo era cifra già elevata, a fare di essa il sito di residenza di condottieri in espansione, i quali portavano sempre dietro di sé turbe di armati, e di comandanti sottoposti. Lo spopolamento dei secoli successivi parte all'esodo della corte normanna, in parte alle calamità e ai terremoti, in parte al riaffermarsi nel di città-centro come Monteleone (Vibo Valentia), la quale nei tempi precedenti la venuta di Ruggero era andata in rovina anche in seguito alle incursioni saracene.
[1] Alcune date: giugno 1184, febbraio 1624, marzo 1638, novembre 1659, gennaio 1693, aprile 1723, dicembre 1743, febbraio 1783, settembre 1905, dicembre 1908.
[2] Per la bibliografia, si veda il fondo del volume.
[3] "Postea est Miletus civitas vetusta inter duos amnes edito loco a Milesiis Asiae popuiis condita. Nam ut Erodotus libro sexto auctos est, Mileto Asiae a Dario eversa, Milesii, qui ca clade superfuere, privati patria, ut quondarn Troiani, una curn Samiis, liberis e coniugibus susceptis novana sedem conquirentem Rhegium pervenerunt " (De antiquitate et situ Calabriae Romae, 1571).
[4] "Ab Hierusalem per circuitum usque ad lllyricum replevi Evangelii. Christi" (Ad Rom.; XV, 19).
[5] La prima traduzione latina del testo greco fu data dal Capialbi: "Anno (in quo) Deus Dominus et illuxit nobis. (In V. Capialbi, Memorie per servire alla storia della Santa Chiesa Miletese, 1835).
[6] "Anno CMXLVI Tropeum et Nicotrum, et Militum a Saracenis de Sicilia captae sunt, sed a Calabrensibus in Calimaro multi de illis occisi sunt!" ("Nell'anno 946 Tropea, e Nicotera, e Mileto sono state: conquistate dai Saraceni di Sicilia, ma in Calimera molti di essi sono stati uccisi! ".
[7] U.M Napolione, Memorie per la Chiesa Vescovile di Mileto (manoscritto del sec. XVIII).
[8] Fiore, Calahria illustrata, Napoli, 1691.
[9] Malaterra, De rebus gestis Rogerii Comitis, in Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, Arezzo, 1767 (Opere).
[10] Canta il Maraldo, tra l'altro, nel suo ritmo: "Militensis sit immensis / Urbs antiqua gaudiis... Baptizatur et lavatur I Sacro puer flumine. / Lanuinus est patrinus / Nobilis Northmanicus, / Tunique sacro de lavacro / Olivo Bruno inungitur. / Christo Deo supero, / FeIix omen; tenet nomen / Puer hic Rogerius. / Canunt omnes, stant insomnes / Metris jubilantibus, / Ardet Forus, gaudet Thorus / Nimio prae gaudio. / Melitensis nam Ostensis / Gaudebat Ecclesia, / Quia tapere cum abiete / Exornata cernitur... ". (Rbytmus in nativitate Rogerii Imi" Sici!iae regis /magni Comitis Rogerii filii / ex chronico Maraldi monachi et S. Brunoni discipuli / in Eremo Calabriae cxcerptus).
LA DECIMA LEGIONE dei calabresi
La Legio X Fretensis ("dello Stretto") fu una legione romana creata da Ottaviano nel 41/40 a.C. per combattere durante le guerre civili che portarono alla dissoluzione della Repubblica, ed esistette almeno fino agli inizi del V secolo.
I suoi simboli furono il toro, animale sacro della dea Venere, da cui, secondo la leggenda, discendeva la gens Giulia a cui appartenevano Gaio Giulio Cesare e Ottaviano,[1] e la nave, probabilmente un riferimento alla battaglia di Nauloco.
Ottaviano scelse per questa legione il numero dieci come richiamo alla famosa Legio X di Cesare. Nel 36 a.C., la legione combatté agli ordini di Ottaviano contro Sesto Pompeo nella Battaglia di Nauloco, espisodio da cui ricevette il suo cognomen, Fretensis, perché la battaglia si svolse nei pressi dello stretto di Messina, il Fretum Siculum.
Nel 31 a.C. combatté nella Battaglia di Azio contro Marco Antonio, e proprio la partecipazione a questa battaglia spiegherebbe perché un altro simbolo della legione fu la trireme. Lo scontro ad Azio segnò la fine delle guerre civili e l'assunzione del potere assoluto da parte di Ottaviano, che nel 27 a.C. assunse il titolo di Augusto.
Dopo essere stata di stanza nella provincia di Giudea, nel 6 d.C. fu invece acquartierata nella provincia di Siria, insieme alla III Gallica, alla VI Ferrata e alla XII Fulminata. In quello stesso anno, Publio Sulpicio Quirino, governatore di Siria, guidò queste legioni contro la rivolta scoppiata dopo l'uccisione di Erode Archelao.
Al tempo dell'imperatore Nerone, nel 58, la X Fretensis partecipò alla campagna militare di Gneo Domizio Corbulone contro i Parti.
la città di Gamala, conquistata dalla X Fretensis nel 68.
La X Fretensis giocò un ruolo importante nella prima guerra giudaica (66–73) sotto il comando supremo del futuro imperatore Vespasiano. Nel 66 questa legione si recò insieme alla V Macedonica ad Alessandria per un'invasione dell'Etiopia, pianificata da Nerone, ma invece furono impiegate nella sopressione della rivolta giudaica. Dopo aver svernato ad Acri (Israele), la X Fretensis e la V Macedonica furono acquartierate nella città costiera di Caesarea Maritima (67/68). E mentre nel 69 Vespasiano si recò a Roma nell'ambito delle guerre civili note come anno dei quattro imperatori, il figlio Tito rimase in Oriente per reprimere la rivolta. Quando Taricace e Gamala furono conquistate, la X Fretensis andò a Scitopoli (odierna Bet She'an), poco ad ovest del fiume Giordano. Nell'estate del 68, la X Fretensis distrusse il monastero di Qumran e poi si spostò negli accampamenti invernali di Gerico.
Erodio, una delle fortezze conquistate dalla X legione Fretensis durante la rivolta giudaica.
A partire dal 70, la rivolta fu soppressa in tutta la Giudea, tranne che a Gerusalemme e in pochi altri luoghi, come la fortezza di Masada. In questo stesso anno la X Fretensis, insieme alla V Macedonica, alla XII Fulminata e alla XV Apollinaris, assediò Gerusalemme, fulcro della rivolta. La X si accampò sul Monte degli olivi e durante l'assedio acquistò fama per la sua abilità di utilizzare le macchine da guerra. Dopo cinque mesi di duro assedio, Gerusalemme cadde e fu saccheggiata.
I resti dell'accampamento della X Fretensis a Masada.
Durante la rivolta del 71, Tito si recò a Roma e fu nominato un nuovo governatore, Lucilio Basso, che ebbe l'ordine di portare a termine le ultime operazioni militari in Giudea. Egli si servì della Fretensis, che conquistò Erodio e, attraversato il Giordano, la fortezza di Machero, sulla costa del Mar Morto. A causa di una malattia, Basso non portò però a termine il suo compito. Fu sostituito da Lucio Flavio Silva, che, nell'autunno del 72, attaccò la fortezza giudaica di Masada, avvalendosi anche della X legione. Dopo la definitiva soppressione della rivolta, la legione fu collocata a Gerusalemme. In questo periodo fu la sola acquartierata in Giudea con il compito di mantenere la pace nella regione. Era alle dirette dipendenze del governatore provinciale, che aveva quindi anche la funzione di legato di legione.[2]
Dopo aver partecipato alla campagna militare di Traiano contro i Parti, la Fretensis fu coinvolta nella rivolta di Bar Kokhba (132-135), che era scoppiata a seguito della decisione dell'imperatore Adriano di costruire un tempio pagano in onore di Giove a Gerusalemme. Simone Bar Kokhba diede vita alla rivolta, occupando Gerusalemme e infliggendo molte perdite ai romani. La guerra terminò quando l'esercito romano, compresa la X Fretensis e truppe provenienti dal confine danubiano, sotto il comando di Sesto Giulio Severo riconquistarono Gerusalemme e assediarono con successo l'ultima fortezza giudaica, Betar. Visto il malcontento che serpeggiava nella regione, la Fretensis fu affiancata dalla VI Ferrata, accampata a Lejjun.
Una vexillatio della Fretensis combatté contro i Marcomanni al tempo di Marco Aurelio. Nel 193, la legione si schierò con Pescennio Nigro contro Settimio Severo e fu forse coinvolta nella lotta tra Giudei e Samaritani. Si trovava ancora a Gerusalemme al tempo di Caracalla o di Eliogabalo, mentre all'epoca di Gallieno fu impiegata nella guerra contro l'Impero delle Gallie, in Europa. Fu poi spostata ad Aila (vicino all'odierna Aqaba),[3] forse all'epoca della riforma di Diocleziano e si trovava ancora là quando fu redatta la Notitia Dignitatum (inizi del V secolo).[4]
Tra i Carmina triumphalia giunti fino a noi abbiamo quelli che i soldati cantarono durante il trionfo di Cesare. A riportarlo è lo storico Svetonio, nel carmen si fa allusione all'omosessualità, per giunta passiva, di Cesare.
« Gallias Caesar subegit,
Nicomedes Caesarem:
« Cesare ha sottomesso le Gallie,
Nicomede Cesare
ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias,
ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie,
Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem »(Svetonio)
mentre non trionfa Nicomede, che pur sottomise Cesare. »
La vittoria a Bedriaco, dove sei mesi prima era stata decretata l'ascesa al trono di Vitellio, permise a Vespasiano di divenire imperatore. Antonio, infatti, avanzò su Roma, dove prese prigioniero Vitellio, che fu qualche tempo dopo ucciso.
Venuto a conoscenza dell'arrivo di Antonio, Vitellio gli inviò contro un esercito composto dalle legioni XXI Rapax, V Alaudae, I Italica e XXII Primigenia, più vessillazioni di altre sette legioni e truppe ausiliarie, al comando di Cecina (Valente era rimasto a Roma bloccato da una malattia).
Le prime legioni di Antonio raggiunsero Verona, ma Cecina, sebbene in superiorità numerica e richiesto di attaccarle, si rifiutò di cercare battaglia. Egli aveva deciso infatti, con l'appoggio del comandante della classis Ravennatis (la flotta di Ravenna) Lucilio Basso, di passare dalla parte di Vespasiano. Le truppe di Vitellio si rifiutarono di abbandonare il proprio imperatore e imprigionarono Cecina. Decisero quindi di muovere su Cremona senza aspettare l'arrivo da Roma di Valente, ormai guarito. Anche Antonio, che si trovava a Bedriacum, mandò a Cremona una unità di cavalleria.
La cavalleria di Antonio incontrò l'avanguardia di Vitellio tra Cremona e Bedriaco (24 ottobre) e, raggiunta dalle legioni, ebbe la meglio sulle forze di Vitellio, che furono costrette a ritirarsi a Cremona. Antonio decise di approfittare della situazione avanzando lungo la Via Postumia verso Cremona, ma si scontrò con il grosso delle forze vitelliane, rinforzate dalla IIII Macedonica ma ancora senza comandante (Valente non era ancora gunto da Roma).
La battaglia fu molto dura e durò tutta la notte, fino all'alba del 25. La VII Galbiana, la legione di Antonio, subì grosse perdite, giungendo a perdere per qualche tempo la propria aquila, finché un centurione non si sacrificò per recuperarla. A poco a poco le truppe di Antonio presero il sopravvento, ottenendo la vittoria proprio all'arrivo dell'alba, per un episodio singolare.
La III Gallica era stata a lungo in servizio in Siria e i suoi soldati avevano accettato numerosi il culto locale della divinità solare. Nel momento in cui sorse il sole, i soldati si voltarono verso oriente salutandolo, come era uso tra i devoti: le truppe di Vitellio, però, travisarono il gesto, ritenendo che gli uomini della Gallica stessero salutando l'arrivo dei rinforzi, e si abbatterono, venendo respinte fino al proprio campo. Antonio conquistò il campo nemico e poi attaccò direttamente Cremona: la città si arrese, ma questo non la salvò dall'incendio appiccato dai vincitori.
Macheronte perché è il luogo dove Giovanni Battista è stato decapitato per volere di Erodiade, la moglie illegittima di Erode Antipa (cf. Mc 6,17-29 e paralleli).
Macheronte venne distrutto una prima volta nel 55
a.C. quando Aristobulo II si era ribellato a Pompeo. Costui inviò Gabinio
governatore di Siria che rase al suolo la fortezza. Il palazzo fu ricostruito da
Erode il Grande a partire dal 30 d.C. e fu usato dagli zeloti nella guerra
contro Roma (67-72 d.C.).
Nel 70 d.C. Macheronte fu distrutto dai romani dopo un
lungo assedio. La prima parte dell’assedio a Macheronte era stata diretta dal
generale Cereale, poi il comando fu dato a Lucilio Basso. Quando le
legioni ebbero terminato il muro (vallus) e la rampa d’attacco (agger),
alcuni zeloti tradirono i compagni e consegnarono la fortezza ai romani.
67 a.C. Comandante di una flottiglia romana distaccata dalla flotta romana a Creta: legato Lucio Basso. VI 86
69 d.C. Comandante delle flotte pretorie Misenense e Ravennate: Sesto Lucilio Basso. IX 138
71 d.C. Comandante della flotta pretoria Ravennate: Sesto Lucilio Basso. XI 209
Tito Flavio Vespasiano (Roma, 30 dicembre 39 – Roma, 13 settembre 81) è stato un imperatore romano della dinastia dei Flavi.
Prima di diventare imperatore, Tito fu un abile e stimato generale che si distinse per la repressione della ribellione in Giudea del 70. Fu considerato un buon imperatore da Tacito e da altri storici contemporanei; è noto per il suo programma di opere pubbliche a Roma e per la sua generosità nel soccorrere la popolazione in seguito a due eventi disastrosi: l’eruzione del Vesuvio del 79 e l’incendio di Roma dell’80. Celebre è la definizione che gli dà lo storico Svetonio: "amor ac deliciae generis humani", ovvero "delizia del genere umano", per enfatizzare i vari meriti del governo di Tito.
Tito, figlio maggiore di Vespasiano e Flavia Domitilla Maggiore, dal 61 al 63 fu tribuno militare in Britannia e in Germania. Nel 64 fece ritorno a Roma e sposò Arrecina Tertulla, figlia di un ex Prefetto della Guardia Pretoriana, la quale morì l’anno successivo. Tito prese quindi in moglie una donna proveniente da una famiglia più altolocata, Marcia Furnilla. Da Marcia ebbe una figlia, Giulia Flavia. La famiglia di Marcia era però legata agli oppositori di Nerone, e Tito – spaventato dalla fallita Congiura di Pisone del 65 – decise di tagliare i ponti con quelle fazioni divorziando dalla moglie. Non si risposò più.
Tito seguì il padre Vespasiano in Medio Oriente nel 67, per aiutarlo a reprimere la ribellione in Giudea. Durante il conflitto servì come comandante della Legio XV Apollinaris. Quando l'imperatore Galba fu assassinato, Tito convinse Gaio Licino Muciano, governatore della Siria, a sposare la causa dei Flavi, e si impegnò a sostenere il padre nella sua candidatura al potere. Nel 69, l'anno dei quattro imperatori, Vespasiano rientrò a Roma per reclamare il trono, lasciando il figlio in Giudea a porre fine alla rivolta, cosa che Tito fece l’anno successivo: Gerusalemme fu saccheggiata, il Tempio distrutto, e gran parte della popolazione uccisa o costretta a fuggire dalla città. Durante il suo soggiorno a Gerusalemme, Tito ebbe una relazione con Berenice di Cilicia, figlia di Erode Agrippa I. Al suo ritorno a Roma nel 71 fu accolto in trionfo. Fu più volte console durante il regno del padre, e fu anche Prefetto della Guardia pretoriana, assicurandone la fedeltà all’Imperatore. Tutti i fatti legati alla rivolta e alla caduta di Gerusalemme sono raccontati dallo storico ebreo Giuseppe Flavio nella sua opera La Guerra Giudaica.
Tito succedette al padre Vespasiano nel 79, imponendo così, per breve tempo, il ritorno al regime dinastico nella trasmissione del potere imperiale. Svetonio scrisse come allora molti temettero che Tito si sarebbe comportato come un novello Nerone, a causa dei numerosi vizi che gli venivano attribuiti. Al contrario, egli fu un valido e stimato imperatore, amato dal popolo, che fu pronto a riconoscere le sue virtù. Pose fine ai processi per tradimento, punì i delatores, e organizzò sontuosi giochi gladiatòrii senza che il loro costo si ripercuotesse sulle tasche dei cittadini. Completò la costruzione del Colosseo e fece costruire delle Terme nel sito dove si trovava la Domus Aurea, restituendo l’area alla città.
L'eruzione del Vesuvio del 79 – che causò la distruzione di Pompei ed Ercolano e gravissimi danni nelle città e comunità attorno al golfo di Napoli – ed un rovinoso incendio divampato a Roma l'anno successivo, diedero modo a Tito di mostrare la propria generosità: in entrambi i casi egli contribuì con le proprie ricchezze a riparare i danni e ad alleviare le sofferenze della popolazione. Questi episodi, ed il fatto che durante il suo principato non fu emessa nessuna sentenza di condanna a morte, gli valsero l'appellativo presso gli storici suoi contemporanei di "delizia del genere umano" (Tacito ridimensionerà poi questo appellativo sostenendo che il principato di Tito fu piuttosto "felice nella sua brevità"). Visitò Pompei subito dopo la disastrosa eruzione, e nuovamente l’anno successivo.
Durante il suo regno dovette anche affrontare la ribellione di Terenzio Massimo, soprannominato il "Falso Nerone" per la sua somiglianza con l’imperatore: Terenzio fu costretto a fuggire oltre l’Eufrate, dove trovò rifugio presso i Parti.
Dopo appena due anni di regno, Tito morì per una forte febbre. Secondo Svetonio, potrebbe essere stato colpito dalla malaria assistendo i malati, oppure avvelenato dal suo medico personale Valeno su ordine del fratello Domiziano. Alla sua morte fu santificato dal Senato, e un arco trionfale fu eretto nel Foro Romano dallo stesso Domiziano per celebrare le sue imprese militari. La sua reputazione rimase intatta negli anni, tanto da essere poi eletto a modello dai "Cinque buoni Imperatori" del II secolo (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio).
La Legio XV Apollinaris ("devota ad Apollo") fu una legione romana attiva tra il 41 a.C. circa e il V secolo. L'emblema della legione non è noto, ma era verosimilmente una raffigurazione di Apollo o uno dei suoi animali sacri.
Al termine della rivolta dalmato-pannonica (14), la legione venne trasferita a Poetovio forse in occasione dell'avanzamento allo status di colonia romana di Emona, sotto Tiberio (15-18 circa). Nel 50 venne trasferita a Carnuntum, in seguito alla crisi interna del regno marcomanno di Vannio; qui rimase almeno fino al 63. Venne trasferita per pochi anni in Oriente tra il 63 ed il 70, dove partecipò inizialmente alla campagne contro i Parti di Gneo Domizio Corbulone, soggiornando poi ad Alessandria d'Egitto dal 64-67, ed in seguito combattendo in Giudea nella prima guerra giudaica contro gli Ebrei sotto Vespasiano e Tito (che ne fu comandante). Si ipotizza che i suoi accampamenti siano stati prima Antiochia (67-69) e poi Gerusalemme (nel 70). In questi anni di assenza dal fronte danubiano venne rimpiazzata a Carnuntum dalla X Gemina, ma la XV Apollinaris tornò a Carnuntum alla fine della guerra giudaica.
Sotto Domiziano combattè lungo il confine danubiano nel Bellum Suebicum et Sarmaticum. Traiano la impiegò nelle campagne contro i Parti a partire dal 114. Nella nuova riorganizzazione orientale operata da Adriano (117-118) la XV Apollinaris venne posizionata definitivamente a Satala. in Cappadocia. Marco Aurelio utilizzò alcune sue vexillationes lungo il fronte dacico-sarmatico nelle guerre marcomanniche; nel 175, per la fedeltà dimostrata al tentativo di usurpazione di Avidio Cassio, l'imperatore le attribuirì l'appellativo costans pia fidelis.
Nel V secolo era ancora in Cappadocia, secondo la Notitia dignitatum; di base a Satala e Ancyra, era sotto il comando del Dux Armeniae.
Caracalla
Marco Aurelio Antonino, originariamente Lucio Settimio Bassiano e meglio noto come Caracalla (4 aprile 186-8 aprile 217), fu imperatore romano dal 4 febbraio 211 alla sua morte.
Nato a Lugdunum (oggi Lione) nella provincia della Gallia, era figlio del futuro imperatore Settimio Severo e di Giulia Domna. Il suo vero nome era 'Lucio Settimio Bassiano', che poi cambiò in 'Marco Aurelio Antonino' per suggerire più strette connessioni con la famiglia di Marco Aurelio. In seguito gli fu dato il soprannome di 'Caracalla', con riferimento alla tunica con cappuccio di origine gallica che usava portare e che egli rese di moda. Viene generalmente considerato tra gli imperatori romani più brutali.
Settimio Severo, imperatore dal 193, morì il 4 febbraio 211 a Eboracum (oggi York, nell'Inghilterra del nord), e Caracalla fu proclamato coimperatore, insieme al fratello Publio Settimio Antonino Geta. Ma Caracalla, non sopportando di dividere il potere col fratello, anche a causa di antichi dissapori, uccise Geta nel dicembre dello stesso anno.
Tranquillizzati i pretoriani con ampi donativi, il nuovo imperatore si accanì contro i sostenitori (o presunti tali) del fratello ucciso, senza nessuna pietà. Quando gli abitanti di Alessandria d'Egitto udirono che Caracalla aveva asserito di aver ucciso Geta per autodifesa, produssero una satira su questa e altre pretese di Caracalla. Egli rispose in modo selvaggio alla irrisione: nel 215 massacrò la delegazione di eminenti cittadini alessandrini che, senza sospetti, si era radunata per salutare il suo arrivo e poi lasciò che le sue truppe saccheggiassero per molti giorni la città. Secondo lo storico Cassio Dione, furono uccise oltre 20.000 persone.
Il suo governo fu ampiamente influenzato dalla madre, la colta e ambiziosa Giulia Domna, che ben presto gli perdonó l'uccisione di Geta e venne, di fatto, associata a quasi tutte le decisioni più importanti da lui prese in quel periodo. Seguendo le istruzioni del padre, che gli aveva sempre consigliato di trascurare chiunque altro ma non l'esercito, alzò la paga del legionario medio a 675 denarii e diede benefici a piene mani alle truppe.
Caracalla fu effettivamente un dittatore militare e di conseguenza fu molto impopolare, tranne che tra i soldati. Per ironia della sorte, mentre si recava in Partia per una nuova guerra, fu assassinato l'8 aprile 217 nei pressi di Harran da Giulio Marziale, un ufficiale della guardia del corpo imperiale. Lo storico Erodiano dice che il fratello di Marziale era stato messo a morte pochi giorni prima da Caracalla, mentre Cassio Dione afferma che egli provava risentimento per non essere stato promosso al rango di centurione. Subito dopo l'assassinio, Marziale venne ucciso da un arciere della guardia del corpo imperiale. A Caracalla successe il prefetto del Pretorio Macrino, che aveva quasi certamente fatto parte della cospirazione contro l'imperatore.
Nella sua semi-leggendaria Historia Regum Britanniae, Goffredo di Monmouth elenca Caracalla, col nome di Bassiano, tra i sovrani della Britannia succedutisi dopo la morte di Geta. Nell'opera di Monmouth Caracalla compare come fratellastro di Geta, tramite una madre britannica. L'opera dice che il generale Carausio, a cui era stato affidato il comando della flotta per difendere la costa della Britannia, si ribellò e sconfisse Caracalla (cosa storicamente non vera). Dopo questa sconfitta, il dominio romano in Britannia si indebolì molto e sarà restaurato del tutto solo in seguito dal cesare Costanzo Cloro.