Il Mito nel Mito
La possibilità di discriminare, nell'ambito della personificazione rappresentata dall'Anima, i tratti della madre da quelli pertinenti alla donna amata, o in generale alla donna, costituisce quindi la prerogativa che differenzia l'individuo capace d'un rapporto dinamico da colui che, al contrario, rimane vittima della fissazione agli aspetti materni, inevitabilmente inficianti ogni rapporto con la donna.
La trattazione specifica intorno
all'archetipo della madre (Gli aspetti psicologici dell'archetipo della Madre), posteriore di poco al ricordato saggio sull'Anima,
apparve nel 1939 a Zurigo negli "Eranos-Jahrbùcher":
essa rappresentava il testo d'una conferenza tenuta nel 1938, ad Ascona, col
titolo Die psychologischen Aspekte des Mutter-Archetypus. Sottoposta, come ogni
scritto junghiano, a ulteriore revisione, fu poi ripubblicata nel 1954 nel
volume collettaneo Von den Wurzeln des Bewusstseins. Studien uber den Archetypus, appartenente alla collana delle "Psychologische
Abhandlungen" (vol. 9). La
destinazione dell'opera oltre che la chiarezza
espositiva di Jung pongono in evidenza una perspicua partizione, che rende
accessibile l'argomento anche a lettori non specializzati, pur senza evitare il
riferimento a nodi concettuali di elevata difficoltà. La parte iniziale è
dedicata all'illustrazione del concetto di archetipo, sia in senso generale, sia
in senso particolare.
Sul piano metodologico Jung distingue la nozione di archetipo, intesa in chiave
psicologica, dalle nozioni affini, teorizzate
in campo filosofico a partire da Platone e in campo etnopsicologico dal noto
studioso tedesco Adolf Bastian e dai seguaci del sociologo e filosofo Emil
Durlcheim, Henri Hubert e Marcel Mauss, che avanzarono,
rispettivamente, il primo l'ipotesi di "pensieri elementari", i
secondi di "categorie" della fantasia universalmente
riscontrabili. Disponendo la propria disciplina nell'ambito evolutivo del
pensiero europeo, Jung pone al centro della propria trattazione il concetto di
archetipo, quale premessa istintuale esprimente si in immagini di tonalità
numinosa in ogni singola esistenza. Di tale premessa Jung si fa,
nell'esemplificazione concreta del saggio, osservatore attento e volto a
cogliere, con aderenza alla
fenomeno-logia, la varietà registrabile nell'esperienza. Per Jung l'archetipo della
madre, al pari dell'archetipo dell'Anima, investe una pluralità di aspetti,
estesi all'ambito rituale, alla mitologia, alle religioni, alla filosofia, al
mondo naturale e animale, alla civiltà umana e alle sue strutture fondamentali,
quali, ad esempio, luoghi dotati di significato universalmente valido e
ricorrenti in ambienti e società diverse. Cosi, in una rapida
ma intensa sintesi, egli indica al lettore la comune origine archetipica di
simboli mitici, come ad esempio Demetra e Core, di "luoghi di nascita o
pro-creazione", di oggetti dotati di alta valenza simbolica, come il forno
e la pentola. Ogni aspetto risulta depo-sitario d'una perenne ambivalenza
pertinente alla madre, esperibile,come Jung aveva già rilevato nei Simboli
della trasformazione, come "madre amorosa" e "madre
terrificante". Una bipolarità dialettica, questa, che contraddistingue la
rappresentazione di Maria nelle allegorie medievali cristiane, e che trova
corrispondenza nella triplice valenza del
principio materno della materia nella filosofia orientale. L'esposizione delle
caratteristiche generali dell'archetipo della madre mira a porre in primo piano
l'incidenza della dimensione collettiva della madre, senza peraltro escludere
l'importanza, nella prassi psicoterapeutica, dei fattori personali. "Gli
effetti etiologici o traumatici della madre,scrive Jung, devono essere distinti
in due gruppi: quelli che corrispondono a tratti del carattere o atteggiamenti
realmente presenti nella madre personale; quelli che si riferiscono a
caratteristiche che essa possiede solo in apparenza, laddove si tratta di
proiezioni di carattere fantastico (vale a dire archetipico) di cui è autore il
bambino". Cosi, nella concezione Junghiana,
i contenuti delle fantasie anormali e delle fobie infantili, in cui la madre appare "sotto forma di animale, strega, spettro, orchessa,
ermafrodito" vengono ricondotti a potenzialità immaginative anteriori al
rapporto con la madre. Unitamente alla descrizione dell'archetipo della madre, Jung
introduce quella del complesso, riprendendo
un termine già presente nella psicopatologia dell'Ottocento, ma da lui
utilizzato in modo nuovo e diverso: dopo gli esperimenti associativi compiuti
nel laboratorio psicopatologico dell'ospedale cantonale Burghòlzli dal 1905 al
1906, Jung aveva designato l'emergere di particolari nuclei psichici, dotati
di "tonalità affettiva", come "complessi", indicando
così il dinamismo psichico inconscio, relativamente accessibile alla sfera
conscia, connesso comunque a una realtà psichica
ancora più profonda, quella archetipica. In tale luce va colta e seguita la
parte centrale del saggio, che consiste in
un'accurata descrizione del complesso materno. Jung distingue il complesso
materno del figlio dal complesso materno della figlia ed esplora sia gli aspetti
positivi, sia quelli negativi del complesso materno. Questa struttura, dotata
d'intrinseca coerenza, vale per il saggio
sull'archetipo della madre, ma al tempo stesso si pone come parallela alla
trattazione degli aspetti del complesso paterno nel figlio, oggetto d'indagine
nello studio sull'Importanza del padre nel destino dell'individuo
(1909/1949) e nei Simboli della trasformazione (1912/1952).
1.
Il mito e l'arte
II mito di Scilla era una costruzione
immaginaria, un’invenzione, una narrazione che esprimeva emozioni e
sentimenti. La sua storia voleva meravigliare chi stava ad ascoltarla, era un
racconto avvincente nel quale gli uomini si confondevano con gli dei. Il mostro
metà donna e metà animale era una creazione letteraria, scaturita per il puro
piacere del narrare, indipendente dai dati empirici, priva di ogni fine pratico
nei confronti della natura e della società.
Seneca scriveva a Lucilie:
Attendo lettere da te, le quali mi dicano che cosa hai appreso di nuovo girando
per tutta la Sicilia, e quali notizie intorno a Cariddi sono più esatte. Giacché
a riguardo
corrisponde a quanto si racconta
Chi e per quali ragioni scrivevano le
"fanfaluche" su Scilla e Cariddi? (2). Le storie d’Omero, Virgilio
e Ovidio esprimevano cultura e punti di vista dei semplici, riflettevano aspetti
di una religiosità e di una coscienza del mondo proprie del popolo? La
documentazione non sempre ci aiuta a sbrogliare il bandolo della matassa, ma la
rigida contrapposizione tra la cultura colta statica, sempre tesa a
salvaguardare i principi, e la cultura popolare dinamica, sempre aperta al
nuovo, lascia perplessi. Il modo di pensare e di sentire dei poeti era legato
allo spirito del popolo, anche senza averne coscienza essi si richiamavano ad
un'esperienza folklorica plurisecolare. Le due diverse culture non possono
essere considerate isolatamente, ma solo in una reciproca correlazione, nel
profondo intrecciarsi dell'una con l'altra.
Non bisogna però nascondersi dietro
parole come "inconscio collettivo" o "immaginario
collettivo" per spiegare la cultura di uomo. L'individuo spesso si confonde
con la massa, ma non per questo la sua psicologia è quella della massa. Gli
artisti vivevano in un rapporto dialettico con la sua gente, ognuno di loro
aveva la propria percezione della realtà, fronteggiava in modo diverso i
pericoli reali e immaginari, operava interpretazioni personali di miti e
credenze.
Non conosciamo ovviamente le ragioni
intime che spingevano i singoli artisti a scrivere su Scilla. Forse plasmavano
le storie allo scopo di divertire o impressionare il pubblico perché era il
loro mestiere. Probabilmente, come afferma Otto Rank, lo facevano per problemi
inconsci, per liberare desideri insoddisfatti o conflitti psichici profondi
(6). Gli impulsi della vita pulsionale primitiva, privati della reale
possibilità di soddisfacimento e in seguito allo svilupparsi dei processi di
rimozione, dalla coscienza individuale passano ad una liberazione mistica
religiosa o finiscono per rifugiarsi nella produzione poetica. La poesia e la
creazione artistica appagano questo conflitto psichico causato dal contrasto tra
i desideri inconsci e i condizionamenti della civiltà (7). Probabilmente
Stilla è un essere immaginario, effetto della fantasia umana, un orizzonte
onirico compensativo delle paure, dei desideri e delle angosce.
Certamente il mito di Stilla era frutto della poesia,
poiché quello stesso luogo era poetico, magico e meraviglioso. Scrive
Pascoli: Questo mare è pieno di voci e
questo deh è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo
mare, ed in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte. Questo è un
luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono
formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli
scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della
sera, immagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle
conchiglie. E' un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare,
sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell'aurora, sotto
le porpore iridescenti dell'occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella,
per dir così, che coglie dalle piante umane ora il fiore ora il
frutto,lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che
secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella
che lascia dietro sé lacrime, ma quella cui segue l'oblio.
Tale potenza nascosta, donde s’ irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato
qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l'orma
nel cielo, come l'eco del mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la
poesia (8). E Marcone: Ma se ciò
non è vero, è senz'altro sublime e degno dello stretto, dove l'aria stessa è
impregnata di fantasia; e la immaginazione ha nella favola data la vita a quella
poetica natura. Circe con i suoi incanti,Cariddi, figlia di Nettuno e della
Terra che, precipitata in mare, diventa un Vortice; Scilla cangiata in mostro da
' dodici artigli; le sei bocche e le altrettante teste, i cani che, annidati nel
suo corpo, co ' contìnui
latrati spaventano i passeggeri, sono creazioni mitologiche, ciascuna delle
quali esprìme un attributo della natura: e le correnti vorticose, il sole, i
venti, la Fata Morgana, la primavera continua, la strapotente forza della luce,
il lusso della vegetazione nelle terre che fiancheggiano lo stretto, il profumo
dei fiori, tutto è magia perenne, tutto è sorriso di creazione, tutto è in
armonia col vecchio e nuovo mito; dagl'incanti di Circe al miracolo del Santo
che vi naviga sul mantello! (9).
E
Morandi: Questa incantevole terra "di monti coronata e di querceti",
limitata dal torrente Favazzana e da Capo Paci, chiusa dalla chiostra
dell'Appennino merlato, specchiata dal tremolare della marina, dette sempre
convegno, nell'eterna festa della Natura, a spiriti grandi, quasi ammaliati da
tanta bellezza. C'è in questo paesaggio una venustà ignota ai lunghi
rettilinei di altre spiagge: qui, gli elementi panoramici sono vari e
contrastanti, disposti in modo da poterli percepire con un rapido giro dello
sguardo (10). E De Gustine: Non credo
ci sia al mondo una regione più bella di questa parte delle coste calabresi
(...) Questi spericolati anfiteatri si innalzano ad altezze terrificanti; niente
è più sorprendente del contrasto fra il lavoro dell'uomo e
l'irregolarità di una natura indomabile, ma allo stesso tempo addolcita da
quell'armonia che ho trovato solo nei paesaggi italiani. Le forme e le luci di
questi luoghi sublimi sono quasi troppo belle per essere vere, eppure non sono
quadri, sono delle campagne reali, sono "invenzioni" della natura. Qui
sembra che essa non permetta all'uomo di abbellire la terra a modo suo, sembra
che debba sempre immischiarsi in questo compito e che malgrado ciò si preoccupi
di nascondere le sue opere d'arte sotto un'apparenza lussureggiante, selvaggia e
primitiva. Delle specie di piante selvatiche crescono sotto i pergolati di
pampini, invadendo la terra che paiono contendere alle colture. Il bagolaro, ad
esempio, estende i suoi rami tortuosi su di una piantagione a filati sfalsati di
aranci, mentre dei magnifici gelsomini selvatici crescono nelle crepe dei muri
scardinandoli, oppure formano delle ghirlande naturali che ricadono dalle rampe
e dalle terrazze, decorando così quasi tutte le città del sud Italia. Sembra
che qui la natura, disgustata dalle conquiste
dell'uomo, si prenda gioco della civiltà,
senza apparvi degli ostacoli invalicabili come nelle Alpi, ma abbellendola come
in pittura!... Lasciatemi dire tutto quello che provo! Voi amate Napoli e i suoi
paesaggi vi incantano, ebbene quello che vedo da tre giorni è superiore! Vorrei
solo che dall'alto di una catena formidabile di monti e al di là di una foresta
di castagni, voi poteste scorgere almeno una volta questo mare azzurro che
brilla davanti a me; sembra che in luoghi del genere le leggi dell'universo
siano capovolte. Il cielo è ai nostri piedi; non sappiamo dove siamo, dove
andiamo;
stiamo volando, stiamo dominando il mondo, ci stiamo perdendo in un mondo aereo
e l'immaginazione si riposa perché quel che vedono i nostri occhi la supera! (11).
Gli uomini che con le navi o a piedi
arrivavano a Scilla, erano affascinati dalla bellezza e dalla maestosità della
natura. La rupe si ergeva solenne in mezzo alla scogliera e alla spiaggia, le
acque limpide accarezzavano gli scogli acuminati ed entravano dolcemente nelle
caverne, le montagne si elevavano imponenti e inaccessibili per la fitta
vegetazione, le isole Eolie lontane spuntavano dal mare come fantasmi e la costa
della Sicilia sembrava dialogare con quella calabrese. Scrive Strutt: Arrivammo
subito a Scilla, di classica memoria, a cinque miglia da Bagnara. Le rocce,
sporgenti ancora e sempre, combattono la loro battaglia marina con le
"abbaianti onde". Le loro forcute punte presentano un aspetto
formidabile. La roccia principale, che è coronata da un forte (una volta
considerato importante, ora ridotto ad una rovina, essendo stato smantellato dai
francesi), forma un potente frangiflutti a protezione del piccolo porto che
offre riparo a barche da pesca, "speronare " ed altri natanti che
appartengono al villaggio di Scilla o sono di passaggio. Lo spettacolo era
troppo pittoresco per non tentare la mia matita(12). E Ciardo: A
Scilla ho la sensazione che le forze della natura siano state fermate di colpo
nelle loro primordiali convulsioni di assestamento, tanto il paesaggio è
sconcertante ed assurdo, quasi che non abbia fatto in tempo a comporsi in un
insieme più ordinato e sereno (...) Una malinconia remota domina gli uomini e
le cose. E' una natura imbronciata, non riposante, le cui suggestioni, grevi e
inconsuete, turbano quasi, almeno la prima
volta. Se l'occhio si posa sul mare incredibilmente azzurro, non si può fare a
meno d'immaginarlo scagliarsi con ondate mostruose contro le miti casette della
spiaggia (13).
Come le nuvole che assumono forme
diverse, anche la rupe di Scilla, che si ergeva in mezzo alla spiaggia di Marina
Grande e alla scogliera della Chianalea, suscitava immagini diverse. Una storia
narra che Scilla era una bellissima ninfa, figlia di Forco e di Crateide. Di lei
si invaghì Glauco, dio marino, con le chiome di verdi alghe fluenti sulle
spalle e con le braccia azzurre, simile ad un pesce.
Una seconda leggenda narra che un giorno
alcuni aquilotti volavano davanti a Giove impedendogli di guardare la sua ninfa
prediletta. Il re dell'Olimpo, infastidito, scagliò le sue saette contro gli
uccelli trasformandoli in cani e facendoli precipitare in mare. La
madre degli aquilotti, tornata nel suo nido, lo trovò
vuoto e addolorata chiese a Giove il permesso di andare a cercare i suoi
piccoli. II padre degli dei, commosso, acconsentì. L'aquila girò in lungo e in
largo il Mediterraneo e li avvistò proprio nel tratto di mare dove è situata
Scilla. Scendendo verso di essi maledì Giove per la sua malvagità, ma questi
ascoltò le sue parole e, indignato, scagliò contro di lei una nuova saetta che
le ruppe l'ala e le provocò una voragine nel ventre. L'aquila precipitò e la
sua testa si trasformò in uno scoglio impervio e il suo ventre in una grotta.
Gli aquilotti-cani accorsi verso la madre si trasformarono anch'essi in scogli e
conservarono i latrati dei cani (15).
Una terza storia narra che Scilla, figlia
del re Niso di Megara, si invaghì di Minosse re di Creta, il quale aveva
assediato la sua città. La bellissima giovane lo ammirava da una torre della
città, e, impazzita d'amore, strappò furtivamente a suo padre il rosso capello
in cui erano riposti la sua vita e quella della sua città e la portò a Minosse.
Il re sdegnosamente la rifiutò e Scilla disperata si buttò in acqua
attaccandosi alla chiglia della sua nave, ma il padre Niso, già mutato dagli
dei in aquila marina, le si precipitò addosso per straziarla col suo becco
adunco. Scilla fu allora mutata in un uccello marino detto Ciris per ricordare
il capello reciso (16).
Queste ultime due leggende furono
ispirate dall'aspetto della rupe. Lo scoglio di Scilla, visto dal mare, notava
Leoni, somigliava ad una grande aquila che volava su un campo di verzura (17).
Più precisa è la descrizione di Morandi: A guardarla
dai monti "Serisi", "Cucuddu" o delle "Serre" del
massiccio appenninico calabrese, che maestosi la dominano, la città, così come
sono disposti i tre grandi quartieri che la compongono, da l’impressione di un
enorme aquila librata. "San Giorgio ", il quartiere maggiore
sovrastante, costituirebbe il corpo e la coda; "Marina Grande" e
"Chianalea", sottostanti, laterali, lunghi e stretti, formerebbero le
ali, mentre la rupe famosa, rotonda, che si insinua per oltre duecento metri dal
mare, costituirebbe la testa (18).
Il tema ricorrente delle storie mitiche
è quello dell'amore e dell'orrore perché Scilla era bella e orrida allo stesso
tempo. Quel luogo, spettacolo sublime, simbolo di bellezza e di luce,
rappresentazione della pace e dell'ordine, improvvisamente cambiava aspetto. Il
cielo diventava cupo e tenebroso, le acque del mare impazzivano e creavano dei
gorghi, le onde si scaraventavano contro le caverne tenebrose latrando come
lupi, le isole lontane scomparivano come fantasmi, le montagne rumoreggiavano
sinistramente e la costa siciliana sembrava muoversi. Da luogo ameno e
pittoresco, Scilla diventava luogo orrendo, simbolo di bruttezza e di oscurità,
rappresentazione del disordine e del caos. Il mito di Scilla trae
origine dalla paradisiaca amenità e dall'asprezza del luogo. Quello spazio da
una parte era manifestazione del divino, poiché ogni cosa stava al suo posto,
dentro i propri confini, dall'altra era manifestazione del misterioso, perché
le forze del caos ritornavano minacciose. Quella natura grandiosamente dolce e
terrificante spingeva a fantasticare, ispirava i poeti ad inventare delle
storie.
Gli uomini da sempre si ispirano ai
paesaggi selvaggi e misteriosi, proiettano le loro emozioni sui panorami
naturali. Gli artisti hanno mostrato e descritto la pace e il terrore di Scilla,
hanno trasformato lo spaventoso e il meraviglioso di quel luogo delle origini in
poesia e arte (19). Scilla è l'amore e l'odio, ed eros e thanatos sono le
sorgenti delle emozioni, il loro conflitto produce creatività, l'uno senza
l'altro perderebbero di forza o sarebbero vuoti (20).
Amore di una madre aquila che per giorni
sorvola il mare in cerca dei suoi figlioli scaraventati nel mare dall'ira di una
saetta di Giove; amore della maga Circe che, gelosa di Glauco, trasforma in
mostro la sua giovane e avvenente rivale; amore di una donna che per essere
corrisposta dal suo innamorato, decide di dare la morte a suo padre e tradire la
sua patria. Nel racconto di Ovidio, così Glauco disse alla maga Circe per
costringere Scilla a cedere al suo amore: Ma
perché tu conosca la causa della mia folle passione: su una spiaggia d'Italia,
di fronte alle mura di Messina, io ho visto Scilla. Non sto a riferirti (mi
vergogno troppo) le promesse, le suppliche,
le lusinghe, le parole mie: tutto ha
disprezzato. Ma ora tu, se le formule magiche possono qualcosa, schiudi la bocca
e falle l’incantesimo; o se per espugnare sono meglio le erbe, serviti dei
poteri di un 'erba di provata efficacia. E non ti chiedo di medicare e sanare la
ferita mia: non voglio che tu me ne Uberi, voglio che anche Sciita bruci di
questo fuoco (21). E lo stesso Glauco così rispondeva alle vane offerte
d'amore della figlia del Sole: Fronde
nasceranno in mare, e alghe sulle
cime dei monti, prima che muti il mio amore per Sciita, finché Sciita è viva (22).
I poeti hanno operato una frantumazione
del mito anche se non lo hanno modificato nella sostanza. Sulle tre versioni di
cui abbiamo parlato esistono delle varianti. Se per Ovidio Scilla era stata
rifiutata da Minosse, aggredita dal padre e poi trasformata in uccello marino,
per Pausania era stata presa in sposa da Minosse, ma poco dopo questi l'aveva
uccisa e ne aveva fatto buttare il corpo in mare. Le onde la portarono sul
promontorio calabro e lì giacque insepolta sino a quanto non fu ingozzata da
pennuti marini (23). Se per Ovidio Glauco era andato da Circe per chiederle di
usare le sue arti magiche al fine di convincere Scilla ad amarlo, in un'altra
versione Glauco e Scilla si amavano e Circe, gelosa, avvelenò le acque dove si
immergevano i due giovani provocando la loro fine: Glauco per pietà fu
convertito dagli dei in dio marino e Scilla in un essere con il corpo di ninfa e
il ventre di cane (24). Un'altra versione narra invece che, poiché Poseidone
si era perdutamente innamorato della ninfa Scilla, Anfitrite, gelosa, gettò
delle erbe magiche nel mare dove la fanciulla si bagnava trasformandola in
mostro (25). Un'altra storia ancora, che fonde in un certo senso le ultime due,
racconta che Scilla, innamorata di Glauco, aveva respinto le profferte d'amore
di Poseidone che l'aveva punita con l'orribile metamorfosi (26). Nel "Liber
Monstruorum" si narra invece che Scilla era innamorata di Glauco ma questi
amava Circe, e insieme a lei la trasformò in mostro (27). Virgilio addirittura
fonde le storie di Niso con quella raccontata da Omero (28) e Ovidio quella di
Niso con quella di Glauco (29).
Anche sull'aspetto di Scilla la
letteratura presenta diverse versioni. Per Omero, Scilla aveva dodici piedi
anteriori con sei bocche bramose situate su lunghi colli che emettevano latrati
come di un "giovine
cane". Per Stesicoro, Scilla era metà donna e metà animale, con una lunga
coda pisciforme come un tritone o una Echidna, e con protomi di cani furiosi
emergenti dai fianchi e dalle spalle(30). Per Ovidio, Scilla era una fanciulla
bellissima che aveva nel ventre dei cani ferocissimi, mentre per Virgilio, nella
parte superiore, aveva l'aspetto di una bella vergine, il ventre abitato da lupi
e la coda di pistrice, animale non dissimile ai delfini (31). Per Lucrezio,
Scilla era metà mostro marino e metà donna, con il ventre cinto di teste
canine rabbiose (32) mentre per l'autore anonimo del "Liber Monstruorum"
aveva fino al ventre, il corpo di donna, nella parte inferiore era un cane e
aveva la coda di delfino (33). Secondo una leggenda popolare, Scilla si
presentava con il corpo di donna terminante con due code di pesce rivolte
all'insù e tenute in mano, come si nota nello stemma della città (34).
Se per Omero Scilla spostava grandi masse d'acqua
scaraventando i marinai fuori dalle loro navi, per Virgilio, come le sirene,
mostrava il volto bellissimo e attraeva le navi sugli scogli (35).
Le raffigurazioni di Scilla nella
scultura, nella pittura e nelle incisioni sono ancora più variegate. L'orribile
mostro che il poeta dell'Odissea descrive come una piovra gigantesca (36),
soprattutto dal V secolo a.C. comincia ad essere rappresentato con un corpo
femminile, coda di pesce e cani feroci che spuntano dal ventre e tale lo si
ritrova sino alla più tarda romanità e anche oltre (37). Scilla appare in
aspetto terribile, di donna cinta da cani furiosi e a volte di serpenti,
composta nella parte inferiore di delfini, di dragoni marini e di code di pesci
mostruosi, armata di tridente, di timone, diremo, di sassi, di fiaccole e anche
di pugnale, con cui uscendo dall'antro aggredisce naviganti e navi (38).
2. II
mito e l'archetipo
Non sempre i miti sono in sintonia con le
strutture sociali, con la geografia del paese o con lo stesso orizzonte
intellettuale. Scilla non aveva solo lo scopo di far fronte ai problemi del
mondo sensibile, il suo mito non era unicamente il riflesso della società
naturale, socio economica, politica o religiosa. Non c'è una dipendenza
meccanica tra la mentalità e la vita materiale di una società, a volte la
tradizione mitica resiste ai mutamenti politici e sociali. Il mito di Scilla non
risponde solo alle ansie del momento, non è una storia pratica per risolvere
problemi pratici, ma è anche espressione di modelli culturali preesistenti,
modelli inconsci che resistono tenacemente all'usura del tempo, che risalgono
lungo il corso dei secoli. Alcune verità del suo mito si sottraggono ai
condizionamenti storici perché rinviano ad una realtà primordiale.
Scilla è un archetipo dell'inconscio
collettivo, un patrimonio carico di significati profondi della psiche umana.
L'opposizione donna animale era una costruzione che non avveniva in maniera
cosciente, un'attività di pensiero indipendente da ogni soggetto, frutto di
un'azione spontanea degli strati profondi dell'inconscio. Scilla era una forma
di espressione simbolica primordiale che si rivolgeva alle profondità
dell'essere, che si generava non tanto dal pensiero degli uomini, quanto dai
loro sentimenti e dall'esperienza vissuta, una proiezione di ricordi primordiali
già fissati in precedenza dalla coscienza collettiva i quali si imponevano a
quelli individuali.
Scilla è una figura prototipica che concerne le origini stesse dell'umanità,
una rivelazione originale della psiche preconscia, una struttura archetipica
della coscienza umana che ha contenuti e comportamenti uguali dappertutto e per
tutti gli individui (39). Gli archetipi possono infatti riprodursi
spontaneamente sempre e ovunque, in forme e modalità indipendenti dalle
influenze esterne (40). Il mito di Scilla è, come direbbe Lèvi-Strauss, un
pensiero astratto e logico, un codice presente in tutte le epoche, una profonda
espressione dello Spirito.
Jung sostiene che gli archetipi sono i
contenuti psichici dell'inconscio collettivo, rappresentazioni comuni,
"immagini universali presenti sin dai tempi remoti" (41). Scilla è
un'immagine archetipica carica di significati che non hanno bisogno di essere
spiegati, poiché è a priori così carica di sensi che non ci si chiede mai che
cosa veramente possano voler dire (42). E' un’immagine formatasi in un'epoca
in cui l'uomo era meno soggetto a condizionamenti del pensiero conscio, un'epoca
in cui la conoscenza non era frutto del pensiero, ma soprattutto della
percezione. Il mito, dunque, rifletteva il mondo psicologico interiore e lo
spirito dell'uomo.
Scilla è un simbolo che non si confonde
con il mondo empirico, è una sorta di rivelazione dell'assoluto, in cui il
senso è legato all'immagine, in cui
il significato si identifica col significante. E' un’immagine prodotta in un
mondo primordiale in cui la mente umana non si esprimeva tramite il pensiero
astratto, bensì tramite figure che contengono forma e contenuto.
Nonostante le differenze geografiche,
storiche e sociali, l'immagine del mostro metà animale e metà donna è
presente con gli stessi caratteri e spesso con gli stessi particolari in diverse
zone del Mediterraneo.
Ea, Sfinge, le Sirene, le Arpie, Eilith,
le Strigi, le Gorgoni, la Medusa, le Enpuse, Echidna, le Idre, le Eamie, le
Erinni, le Furie, e tante altre figure mitologiche sono simili a Scilla (43). I
materiali che abbiamo non sono sufficienti a dimostrare la diretta filiazione
dell'una dall'altra. Spesso senza accorgercene siamo portati ad evidenziare le
rassomiglianze o a tralasciare le differenze, o ancora a porre l'attenzione su
ciò che può dare coerenza alle nostre ipotesi. Vi sono però elementi troppo
costanti per essere attribuiti al caso. Le rassomiglianze di questi mostri, per
limitarci solo a quelli della mitologia classica e dell'area Mediterranea, sono
indiscutibili e, se qualche differenza c'è, sembra essere dovuta soltanto alle
diversità socioculturali degli ambienti naturali, sociali e culturali nei quali
il racconto viene narrato. E' abbastanza spiegabile, ad esempio, che la parte
animale delle Arpie fosse un rapace, considerando che questi uccelli erano
presenti sulle montagne rocciose e che invece la parte animale delle Sirene
fosse costituita dalla coda di pesce considerando che erano presenti lungo le
coste. Dumezil
riconosce le differenze in campo ideologico che separavano certi popoli da
altri, ma individua un'ossatura e un'origine comune di grandi aree geografiche
(44). Le società antiche dialogavano tra loro e si scambiavano le proprie
culture che venivano interpretate, rimodellate e inserite in tradizioni mitiche
diverse.
Anche i miti subivano continue
trasformazioni. La Fata Morgana, ad esempio, è la maga che poco lontano da
Scilla, si divertiva a fare magie sulle acque dello Stretto, è un nome legato
alla leggenda di re Artù. Secondo alcuni, Gervasio da Tilbury scrisse un
racconto che strappava re Artù all'isola di Avalon, per condurlo sotto l'Etna,
dove nella tradizione vivevano i Ciclopi o i Titani. Gervasio nel 1190 era stato
in Sicilia ai servigi di re Guglielmo, ed aveva avuto modo di conoscere molte
leggende di quella terra su cui aveva poi innestato le sue versioni (45).
Scilla e gli altri mostri metà donna e
metà animale sono esseri per metà straordinariamente belli e per metà
straordinariamente brutti. La loro bellezza è data dalle sembianze umane
femminili e la bruttezza dalle sembianze animali. Sono esseri mostruosi e feroci
più di qualunque animale selvaggio, perché nati da rapporti incestuosi. Sono
cannibali e, per divorare la carne umana, ricorrono alla forza, alla seduzione,
all'inganno e alla conoscenza. Sono inoltre spaventosamente grandi, dimorano su
alte rocce, sotto gli abissi del mare o nei deserti. Pur vivendo vicino agli
uomini, sono condannati a vivere al di fuori delle regole sociali come le bestie
feroci e selvagge. Abitano tutti in punti strategici da cui dominano ampi
tenitori, plaghe desertiche o luoghi pericolosi in cui l'uomo è costretto a
passare, ma dove si può smarrire, prendere la strada sbagliata e soccombere.
Sembrano voler difendere un luogo o una zona di confine che separa il mondo
conosciuto da quello sconosciuto.
Ma cosa proteggevano queste figure
mitiche? Probabilmente il regno dell'Ade, il mondo senza vegetazione e senza
luce, la terra avvolta dall'eterna notte, dove si trovavano fiumi terrificanti e
misteriosi acquitrini. Le caverne sotterranee di Scilla erano il mondo dello
spaesamento e dello smarrimento, l'universo pieno di incognite e di rischi
estremi e imprevedibili (46).
Il mondo delle caverne dove viveva Scilla
è il mondo del rimosso e il rimosso è la morte (47). La caverna è il luogo
del passaggio nel mondo delle ombre e dei morti. Il nome Scilla, secondo Vasconi, trae origine probabilmente dal termine semitico "cholah", che
significa doloroso, pieno di tormenti, termine derivato dal verbo"chul",
che in greco significa concavo o profondo. 11 tedesco "noi"significa
cavo, "nòie" vuoi dire caverna e "bolle" inferno. Lo stesso
autore, però, scriveva che più probabilmente Stilla aveva derivazione del nome
sanscrito "Khajà", che significa ombra (48).
Era la narrazione della creazione, di ciò che era accaduto
nel tempo delle origini, degli avvenimenti in seguito al quale si era creato il
mondo (50). La sua forma racconta la creazione scaturita da un caos iniziale da
cui poi erano nate forze dell'ordine. Scilla, è la
rappresentazione del rischio della fine, la minaccia dello spaesamento, della
caduta nell'abisso e nel baratro. Il caos era il tenebroso delle grotte sotto la
rupe e degli abissi delle acque, il luogo dove avvenivano moti caotici, dove vi
era una realtà indistinta e indivisa degli elementi, dove tutto era agitato da
moti incomposti. Stilla era una forza nascosta che travolgeva e disarmava gli
uomini, la sua immagine provocava inquietudini, svelava realtà oscure, ricreava
forze che si agitavano sotto la terra, proiettava conflitti e lotte primordiali.
Il mostro dello Stretto dissolveva la realtà del mondo nell'irrealtà dello
spirito, creava una forma di illusione e un'esperienza onirica, trascendeva la
realtà e capovolgeva l'ordine,dava spazio a quell'irrazionale che abitava nelle
profondità dell'anima, trasportava gli uomini in un mondo ignoto alla ragione,
un universo agito da forze misteriose, creava la sensazione di un ritorno ai
primordi. L'uomo era disponibile a vivere
scenari che trascendevano il proprio orizzonte. La figura mitica di Stilla
creava un pathos, distruggeva i limiti
dell'esistenza, gettava nell'oblio, creava una catarsi e coinvolgeva gli uomini
in una vicenda di rovesciamento le cui ragioni trascendevano le verità. Stilla
non eccitava la ragione, ma induceva all'abbandono e all'estasi. Il suo simbolo
non rinviava a significati conosciuti, ma ad una struttura segreta e oscura del
mondo. Questa struttura era espressione di desideri inconsci, come dice Freud,
di pulsioni affettive che si manifestavano nei sogni, nei fantasmi di certe
nevrosi o nelle figure simboliche degli oggetti della libido o nell'aspirazione
umana all'incondizionato, all'assoluto o al sacro. Nell'uomo
c'era una nostalgia del primitivo e del naturale, del sublime e del divino e
Scilla proiettava la realtà nel mondo fantastico e magico che popolava i sogni
degli uomini, creava un incantesimo. L'uomo, nel fantasticare il suo universo,
si credeva fatto ad immagine di Dio, ma l'animale stava sempre lì a ricordargli
la sua appartenenza al mondo della natura. Il ventre di Stilla era popolato da
lupi famelici e anche in diversi popoli primitivi il mondo uterino era popolato
da mostri fantastici e animali feroci, i quali accrescevano il dolore del
travaglio o erano le doglie stesse personificate(51). L'animale mostruoso,
potente e miracoloso, incarnava la paura vitale e il rischio mortale. Scilla era
l'ossessione dell'anormale e dell'inclassificabile, ma anche dell'onnipresenza
del mostruoso nel pensiero umano, fonte di paura e di attrazione. Attraverso
il racconto mitico, gli uomini spiegavano le paure che dominavano la loro vita e
allo stesso tempo le neutralizzavano. Mostri
come Scilla, rammentavano simbolicamente agli uomini che il disordine poteva
nuovamente impadronirsi della loro vita, rappresentavano il rischio di
precipitare il cosmo nel caos. La narrazione mitica riconosceva e rinnovava la
potenza del disordine, ma allo stesso tempo tracciando un confine la
addomesticava. Il racconto mitico permetteva che il mondo avesse un sopra e un
sotto, un centro e una periferia, ma tali spazi per essere tali, dovevano essere
continuamente attraversati.
note
Su Cariddi chiedeva: Riguardo a Cariddi,
vorrei che mi scrìvessi minutamente se il fenomeno corrisponde a quanto si
racconta;
e, se per caso hai posto attenzione — la cosa è degna di attenzione!, informami se un solo vento ivi produce i vortici od ogni procella solleva in alto
ugualmente quel mare, e se veramente, quanto è stato inghiottito da quel gorgo,
vien trascinato per molte miglia sottacqua ed emerge
presso la spiaggia di Taormina .
1) Ibidem.
2) Scriveva su Cariddi il barone Riedsel: // canale - ("Faro")- in questo luogo non ha che dodici miglia d'Italia di larghezza,
ed io ebbi un'altra volta l'occasione, in questo passaggio, di veder assai da vicino la celebre Cariddi e di convincermi di nuovo eh 'essa non è né profonda,
né pericolosa, e che quel vortice non è cagionato da una voragine, ma soltanto da due correnti opposte che si sforzano di penetrare nello Stretto l'ima dal lato
del nord, l'altra da quella del sud; siccome queste due correnti non si portano nel canale con la medesima forza, né nel medesimo tempo,
esse
cagionano una specie di flusso e reflusso, che, si succede di sei in sei ore, e
su cui i marinari si dirigono facendo
può farsi comodamente e celerissimamente senza remi né vele, e se accade qualche volta di perdersi un grosso vascello, ordinariamente ciò avviene
per l'ignoranza de' marinari, che prendono male il loro tempo per introdursi nello Stretto; per cui allora la corrente li sbalza contro la riva ove sono
obbligati di fracassarsi (Barone Riedesel, Viaggio in Sicilia, Palermo, tip. Abbate,1821, p. 125).
3) Cff. Giovanni Sóle, Belli e brutti. Apollineo e dionisiaco ad Alessandria del Carretto, Rende,
Centro
Editoriale e Librario, Università degli Studi della Calabria, 1998.
4) Cfr. Jean Hassmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche,Torino, Einaudi, 1992, pp. 68-73.
5) Giovanni Sale, L'eremita e i famelici leoni, cit.
6) Otto Rank, // tema dell'incesto nella poesia e nella leggenda: fondamenti psicologici della creazione poetica, Milano, Sugarco, 1989. p. 70.
7) Otto Rank, op. cit., pp. 217-218.
8) Giovanni Pascoli, Un poeta di lingua morta, in "Prose". Milano, Mondadori, 1971, p. 155.
9) Nicola Marcene, Un viaggio in Calabria. Impressioni e ricordi, Roma, Tip.Sociale, 1885, pp. 49-50.
10) Michele Morandi, Salila, in "Le vie d'Italia", Rivista mensile del T.C.I., Milano, 1933, pp. 609-610.
11) Astolphe De Gustine, Memoires et voyages, in "Ai fieri calabresi. L'Europa in Calabria", Milano, Franco Maria Ricci, 1989, p. 108.
12) Arthur John Strutt, Calabria Sicilia 1840, (ristampa), Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1970, p. 209.
13) Vincenzo Ciardo, Sensazioni di Salila, in "Brutium", n.1-2, a. XXXI, Gennaio-Febbraio, 1952.
14)
Girolamo Marafioli. op. cit.. p. 64.
Cfr. Caterina Pigorini-Beri, In Calabria,(ristampa),
Bologna, Forni. 1982,
15) Cfr. Vincenzo Paladino, Calabria ultima. Mostri miti e utopia, Milano, Pan,1982, pp. 6-7.
16) Scrive Ovidio: Aveva appena finito di dire, che si tuffò in acqua e inseguì le navi (la smania le dava forza) e, compagna odiosa,
si aggrappò a quella del re di Cnosso. Come la vide, suo padre, Niso - che già si librava in aria, trasformato da poco in aquila marina dalle fulve ali,
si slanciò per straziarla, appesa coni'era, col becco adunco. Lei spaventata lasciò la poppa, e pane che l'aria leggera la sostenesse, nella caduta,
perché non toccasse la superficie del mare. Si ritrovò piumata: trasformata in uccello piumato, è detta Ciri,
ed ha questo nome per il capello che ha reciso
(Publio Ovidio Nasone, op.
cit., p. 301.
Cfr.
Giovanni Boccaccio, Amorosa
visione,ed. it., Milano, Mondadori, 1974, pp. 84-85.
17) Nicola Leoni, op. cit., p. 39.
18) Michele Morandi, op. cit., p. 610.
19) Leopoldina Fortunati. / mostri nell'immaginario, Milano, Franco Angeli,1995, pp. 47-48.
20) Antonella Riem, II seme e l'urna. Il "doppio" nella letteratura inglese, Ravenna, Longo,1990;
Romana Rutelli Quintavalle, // desiderio del diverso.Saggio sul doppio, Roma. Liguori, 1979.
21) Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, XIV 16-24, alt., p. 557.
22) Ibidem, 38-39, p. 559.
23) Nicola Leone, op. cit., pp. 39-40.
24) Girolamo Marafioti, op. cit., p. 64.
25) Cfr. Rosa Agizza, op. cit., p.
100.
26) Nelida Caffarello, Dizionario archeologico di antichità classiche. Firenze,Olschki, MCMLXXI, p. 434.
27) Liber Monstrorum, cit., p. 159.
28) Paola Pinotti, op. cit., p. 275.
29) Publio Ovidio Nasone, Amo re s, ed. it, in "Opere", Torino, Utet, 1982, p.195.
30) Scilla, in "Enciclopedia dell'arte antica, classica e orientale", voi. VII, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1966, p. 109.
31) Virgilio, Eneide, III, 426-428, ed. it., Milano, Fondazione Lorenzo Valla,Arnoldo Mondadori, 1978, pp. 33-35.
32) Tito Lucrezio Caro, La natura, V, 890-894, (cd.il.), Torino, Utet, 1976, p.385.
33) Liber Monstrorum, cit.,p. 159.
34) Scilla. Nel mito e nella leggenda. Guida turìstica, cit., p. 18.Virgilio scriveva: Scilla tiene il lato destro, il sinistro l'implacata Cariddi e tre volte
a dirotto risucchia vasti flutti nel fondo gorgo del baratro, e di nuovo li scaglia alteramente nell'aria e flagella gli astri con l'onda.
Invece un antro racchiude in ciechi nascondigli Scilla che sporge il volto e attrae le navi sugli scogli. In alto parvenza umana e fanciulla dal bel petto fino
all'inguine; in basso mostro dal corpo smisurato, unendo code di delfini a ventre di lupi. Meglio percorrere le mete del trinacrio Pachino indugiando,
e percorrere in giro una lunga rotta, che vedere un'unica volta nel vostro antro l'orrenda Scilla e gli scogli risonanti di cani cerulei
(Virgilio, Eneide,
cit., Ili, 420-432, pp. 33-35).
35) Cfr. Bernhard Andreae, L'immagine di Ulisse. Mito e archeologia, Torino,Einaudi, 1983;
Antonella Barina, La sirena nella mitologia, cit., p. 15.
36) Bernhard Andreae, op. cit, pp. 33-37.
37) Domenico Vasconi, op. cit., p. 41.
38) Carl Gustav Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, in "Opere", voi. IX.t.I, Torino, Boringhieri, 1980, p. 3.
39) Sugli archetipi si veda anche Jacobi Jolande, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G. Jung, Torino,Boringhieri, 1971;
Joseph Campbell, II potere del mito,
Milano, Tea, 1990;
Giordano Fossi, Miti
religione e psicoanalisi. Una nuova proposta psicodinamica, Milano, Angeli,
1990.
40) Carl Gustav Jung, L'archetipo della madre, Torino, Boringhieri, 1990, p. 28.
41) Ibidem, p.
4.
42) Ibidem.
43) Cfr. Jacques Brii, Lilith o l'aspetto inquietante del femminile, Genova. Ecig,1990.
44)
Georges Dumézil, Gli sei sovrani degli
indoeuropei, Torino, Einaudi, 1985. Cfr. Daniel Dubuisson, Mitologie
del
Dumézil, Lévi-Strauss,Eliade, (introduzione di C.Grottanelli e V. Lanternari), Bari, Dedalo. 1995.
45) Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Milano, Mondadori, 1984, pp. 321-338.
46) Scrive Vasconi: Stilla avrebbe qualche punto di somiglianzà con "Eia" od"Hela" figlia di Loke e di Angherboda, tiene il suo dominio sul "Nifleim"
(uno dei due inferni favoleggiati dagli Scandinavi), ove fu precipitata e dove all'incendio del mondo accoglierà i codardi, gli spergiuri, gli adulteri,
gli assassini in una sala esposta ai venti del
Settentrione, e costruita di cadaveri di serpenti (Domenico
Vasconi, op. cit., p. 46).
47) James Hillman. // sogno e il mondo infero, Milano, Ed. di Comunità, 1984,pp. 29-68.
48) Domenico Vasconi, op. cit., pp. 42.
49) Gianni Micheli, Caos/Cosmo, in "Enciclopedia", Voi. II, Torino, Einaudi,1977, pp. 572-588;
Cfr.
Eduard Zeller –
50) Mircea Eliade, Mito e realtà, cit., p. 28.
51)
Claude Lévi-Strauss, Antropologia
strutturale, cit., p. 219.
INDEX