Pietro il Venerabile

 

Pierre de Montboissier, conosciuto comunemente come Pietro il Venerabile, (Francia, 1092 – Cluny, 1157) fu un noto abate di Cluny

Grande viaggiatore, svolse un importante ruolo diplomatico soprattutto con l’elezione al papato, nel 1130, di Innocenzo II, che riconobbe contro l’antipapa Anacleto II. Dopo una permanenza in Spagna, Pietro fece tradurre in latino il Corano; combatté le dottrine musulmane e israelite.

Considerato l’ultimo dei grandi abati di Cluny, era succeduto nel 1122 a Pons de Melgueil, abate scismatico deposto da papa Callisto II e combatté le dottrine di Pietro di Bruys con la sua Epistola adversus petrobrusianos.

Riformò l’abbazia di Cluny, oppressa da difficoltà finanziarie; la riforma del dominio signorile è per lui necessaria per assicurare un tenore di vita dignitoso per i monaci: tale è lo scopo della Dispositio rei familiaris. Anche gli inventari indicati nella Constitutio expense cluniaci costituiscono una fonte preziosa per gli storici, attestando i redditi, le semenze, le tecniche agricole utilizzate: notevole, in quest’opera, fu la parte essenziale svolta dal vescovo di Winchester, Henri de Blois.

Pietro il Venerabile fu anche l’autore de Il libro delle Meraviglie.

 

L'Abbazia di Cluny fu fondata nell'omonimo paese della Saône-et-Loire il 2 settembre 909 dal duca di Aquitania e Alvernia, Guglielmo I detto il Pio, che la mise sotto la diretta autorità del Papa Sergio III. L'abbazia e la sua costellazione di dipendenze arrivarono presto ad esemplificare il tipo di vita religiosa nel cuore della pietà dell'XI secolo.

L'Ordine di San Benedetto fu una delle pietre miliari della struttura sociale che la società europea riuscì a raggiungere nel XI secolo, tanto che, in parte grazie alla fedele aderenza ad una rinnovata Regola benedettina, Cluny divenne la guida illuminata del monachesimo occidentale già a partire dal tardo X secolo. Diversi tra gli abati che si susseguirono a Cluny, molti dei quali estremamente dotti, divennero anche uomini di stato, noti a livello internazionale. Lo stesso monastero di Cluny divenne la più famosa, prestigiosa e sovvenzionata istituzione monastica in Europa. La maggior influenza cluniacense si ebbe a partire dalla seconda metà del X secolo fino ai primi anni del XII.

Fondazione

Nel 910 l'abbazia, casa madre dell'ordine omonimo, era ancora di dimensioni modeste. Donando la sua riserva di caccia nelle foreste della Borgogna, Guglielmo dette a Cluny il grande privilegio di liberarla da ogni obbligo verso di lui o la sua famiglia se non la preghiera, a differenza degli altri signori dei suoi tempi che non rinunciavano a far valere i loro intenti, specialmente nella designazione degli abati. Guglielmo prese questa decisione insieme a Berno, il primo abate, per liberare il nuovo monastero da influenze secolari.

Organizzazione

Il monastero di Cluny differiva in due modi dagli altri centri e confederazioni benedettine: nella sua struttura organizzativa e nell'esecuzione della liturgia come sua principale forma di lavoro. Mentre, infatti, la maggior parte dei monasteri benedettini rimanevano autonomi e associati agli altri solo in maniera informale, Cluny creò una grande federazione in cui gli amministratori di sedi minori servivano come deputati dell'abate di Cluny e rispondevano di tutto a questi. I responsabili dei monasteri cluniacensi, essendo sotto la diretta supervisione dell'abate della casa madre, autocrata dell'ordine, erano chiamati quindi non abati ma priori. Questi, detti anche capi di prioria, si incontravano a Cluny una volta all'anno per trattare di questioni amministrative e fare rapporto. Le altre strutture benedettine, anche quelle di formazione più datata, riconobbero Cluny come la propria guida. Quando nel 1016 Papa Benedetto VIII decretò che i privilegi di Cluny si estendessero anche alle sue sedi minori, ci fu un ulteriore incentivo per le comunità benedettine ad entrar a far parte dell'ordine cluniacense. I monaci ospiti di Cluny rappresentarono, inoltre, una rivalutazione dell'originale ideale del monachesimo benedettino, inteso come un'entità produttiva ed autosufficiente, simile alle contemporanee ville proprie delle zone ove l'influenza dell'Impero romano era ancora predominante e dei manieri manifestazione del feudalesimo, in cui ogni membro della comunità doveva offrire il lavoro manuale oltre alla preghiera. San Benedetto di Aniane, il "secondo Benedetto", aveva raggiunto la consapevolezza che i Monaci Neri non potevano più supportare se stessi con il solo lavoro fisico: è questo il carattere fondamentale delle costituzioni monastiche che egli compilò nell'817 per regolare tutti i monasteri carolingi, su pressione di Luigi il Pio. In tale prospettiva, la decisione di Cluny di offrire esclusivamente delle preghiere perenni (laus perennis) era la testimonianza che la specializzazione vi aveva compiuto un passo ulteriore.

Cluny e le Arti

A Cluny l'arte centrale era la liturgia stessa che, estensiva e bella in un contesto fonte d'ispirazione, rifletteva la nuova ondata di pietà più personale e soggettiva dell'XI secolo; l'intercessione monastica appariva indispensabile al raggiungimento di uno stato di grazia ed i potenti facevano a gara per essere ricordati nelle infinite preghiere del monastero, dando inizio alle donazioni di terra e ai benefici che resero possibile lo sviluppo di altre arti.

 

Cluny II

Dopo la primitiva chiesa di medie dimensioni (Cluny I), tra il 948 e il 981 fu ricostruita la chiesa principale (Cluny II), oggi conosciuta solo tramite scavi archeologici. Mostrava un ampio presbiterio, con absidi anche sul transetto, e un coro allungato, tripartito e con deambulatorio.

Il modello di Cluny II venne per esempio copiato nella chiesa di Santa Reparata a Firenze, dove fu vescovo Gerardo di Borgogna, che aveva avuto modo di vedere il modello nella sua terra di origine.

                                                Cluny III

                      Ricostruzione di Cluny III

                                    Ricostruzione di Cluny III

La crescente comunità a Cluny aveva necessità di costruzioni su larga scala. Nel 1088, venne fondata la terza chiesa abbaziale (chiesa di San Pietro e Paolo o Cluny III), di dimensioni titaniche: lunga 187 metri, era dotata di nartece ed aveva ben cinque navate, un coro allungato con deambulatorio e cappelle radiali, un doppio transetto e cinque torri. Era il più grande edificio religioso d'Europa prima della ricostruzione della Basilica di San Pietro a Roma nel XVI secolo. Tra l'altro non venne demolita la vecchia chiesa abbaziale, ma venne lasciata a fianco della nuova.

                                                   Nella terza chiesa di Cluny

                                          Nella terza chiesa di Cluny

La campagna di costruzione fu finanziata dall'annuale census stabilito da Ferdinando I di León, reggente della Castiglia e León in un periodo fra il 1053 ed il 1065. Tale finanziamento fu poi riconfermato da Alfonso VI nel 1077 e, di nuovo, nel 1090. La somma fu fissata a 1.000 aurei da Ferdinando, e raddoppiata da Alfonso VI nel 1090. Per Cluny, la somma equivaleva semplicemente alla più grande annualità che l'ordine avesse mai ricevuto da un re o un laico, e non venne mai superata.

La donazione annuale di Enrico I d'Inghilterra, pari a 100 marchi d'argento (non d'oro), per il 1131, sembra poca cosa al confronto. Il census alfonsino permise all'abate Ugo (morto nel 1109) di affrontare la costruzione della terza e imponente chiesa abbaziale. Quando i pagamenti in monete d'oro islamiche estorte al regno di Castiglia e León vennero in seguito a mancare, non tardò a manifestarsi una imponente crisi finanziaria che afflisse i cluniacensi durante il periodo di Pontius (1109 – 1125) (Pietro il Venerabile (1122 – 1156)). A Cluny, l'importazione d'oro rese manifeste le ricchezze appena scoperte dei cristiani spagnoli e portò la Spagna centrale per la prima volta nella più ampia orbita europea.

A cavallo fra il XVIII secolo e il XIX, venne secolarizzata e, sebbene fosse la più grande abbazie europea, gradualmente demolita, tanto che oggi rimangono di essa solo pochi resti della crociera meridionale, della parte orientale del transetto e di una delle torri, che comunque danno un'idea delle sue dimensioni impressionanti.

                                         Scultura

                               Capitello dell'ex-deambulatoio, Museo lapidario di Cluny

             Capitello dell'ex-deambulatoio, Museo lapidario di Cluny

A Cluny III i capitelli più antichi si trovavano nel deambulatorio e risalgono a prima del 1095. L'ingresso era affiancato da due semicolonne, che presentavano due capitelli istoriati, uno con il Peccato dei progenitori e l'altro con il Sacrificio di Isacco. Sugli altri capitelli era raffigurato una sorta di compendio del sapere medievale, con vari soggetti: un capitello corinzio che dimostra una notevole comprensione dell'arte antica, uno con atleti, uno con un apicoltore, una serie con le virtù teologali e cardinali, uno con una raffigurazione della Primavera, uno dell'Estate, uno con i Fiumi del Paradiso (allegoria dei quattro vangeli) e una serie con gli otto toni del canto gregoriano.

La grande varietà di temi era bilanciata anche dalla notevole varietà degli schemi entro i quali erano scolpite le raffigurazioni: si va dalle mandorle con figure intere di personaggi, ad altri dove l'istoriazione non ha soluzione di continuità.

                          L'influenza dell'abbazia

                                   L'entrata dell'abbazia di Cluny riservata a persone con almeno 18 anni di età

         L'entrata dell'abbazia di Cluny riservata a persone con almeno 18 anni di età

Nell'Europa frammentata del X ed XI secolo, la rete Cluniacense portò lontano la sua influenza riformatrice. Libero da interferenze laiche o episcopali, responsabile solo davanti al papato, che era in stato di debolezza e disordine, con papi rivali appoggiati da gruppi rivali di nobili, lo spirito cluniacense rivitalizzò la chiesa normanna, riorganizzando il monastero reale francese di Fleury e ispirando St Dunstan in Inghilterra, anche se non ci furono dei priorati cluniacensi inglesi ufficiali fino a quello di Lewes, fondato dall'Anglo-Normanno Conte di Warren, a Lewes (ca. 1077). Le meglio conservate delle case cluniacensi in Inghilterra sono Castle Acre, nel Norfolk, e a Wenlock, nello Shropshire. Fino al regno di Enrico VI tutte le case cluniacensi in Inghilterra erano francesi, governate da priori francesi e controllate direttamente da Cluny. L'atto di Enrico che innalzava i priorati inglesi a abbazie indipendenti, fu un gesto politico, un segno della coscienza nazionale inglese.

I primi stabilimenti cluniacensi avevano offerto rifugio da un mondo disordinato, ma verso la fine dell'XI secolo la pietà dell'ordine permeava la società, arrivando al risultato di una finale e decisiva cristianizzazione del continente europeo.

I priori cluniacensi, colti e di buona famiglia, collaboravano fruttuosamente con i potenti, aristocratici o monarchi che fossero, delle zone dove si trovavano i loro monasteri, raggiungendo posizioni di prestigio e responsabilità, fino anche a diventare vescovi. Cluny spargeva in Europa l'abitudine della venerazione del Re come supporto e protettore della Chiesa, e a loro volta i monarchi dell'XI secolo andarono incontro ad un cambiamento nella loro condotta spirituale: in Inghilterra Edoardo il Confessore fu in seguito addirittura canonizzato. In Germania, la penetrazione degli ideali cluniacensi si verificò con l'appoggio dell'imperatore Enrico III, della dinastia Salica, che aveva sposato una figlia del duca di Aquitania. Presso Enrico si rafforzò la convinzione di un ruolo sacramentale dell'Imperatore come delegato di Cristo nella sfera di potere temporale, il che gli concedeva un controllo spirituale ed intellettuale sulla Chiesa tedesca che culminò con l'elezione del suo fedele Papa Leone IX.

                                                        La Tour Fabry è alla fine del muro settentrionale dell'Abbazia

                                 La Tour Fabry è alla fine del muro settentrionale dell'Abbazia

La nuova prospettiva di pietà cristiana dei sovrani rafforzò il movimento della Tregua di Dio per piegare le violenze aristocratiche. struttura fluida intorno all'autorità centrale; caratteristica che sarebbe poi divenuta peculiare delle monarchie nazionali di Francia ed Inghilterra e della burocrazia dei grandi ducati indipendenti, come la Borgogna. La gerarchia altamente centralizzata di Cluny era anche un ideale luogo di crescita e formazione per i prelati cattolici: quattro monaci di Cluny divennero papi (Gregorio VII, Urbano II, Pasquale II e Urbano V).

Cluny fu guidata da una successione ordinata di abati abili ed educati provenienti dalle maggiori famiglie aristocratiche, due dei quali furono canonizzati: i santi Oddone da Cluny, il secondo abate (morto nel 942) e Ugo di Cluny (morto nel 1109). Sant'Odilone di Cluny, il quinto abate (morto nel 1049), fu un terzo grande capo dell'ordine che continuò il lavoro di riforma degli altri monasteri, ma che incoraggiava anche un più stretto controllo dei priorati meno fedeli alla casa madre.

Cluny e le riforme Gregoriane

Cluny non era nota per severità o ascetismo, né per l'adozione della povertà apostolica, ma gli abati di Cluny supportavano il ritorno in auge del papato e le riforme di Papa Gregorio VII che portarono ad un'autorità papale senza precedenti. La struttura cluniacense si trovò ad identificarsi profondamente con la curia romana, ricca, riconosciuta e universale. All'inizio del XII secolo l'ordine perse di influenza a causa della gestione inefficiente. Fu però rivitalizzato in seguito sotto l'abate Pietro il Venerabile (morto nel 1156), che riportò in linea i priorati più deboli e tornò ad una severa disciplina. Cluny raggiunse con Pietro i suoi ultimi giorni di potenza, con i suoi monaci che diventavano vescovi, legati e cardinali in tutta la Francia ed il Sacro Romano Impero. Al tempo della morte di Pietro però erano sorti nuovi e più austeri ordini, come quello Cistercense, che stavano generando una nuova ondata di riforme ecclesiastiche. Fuori dalle strutture ecclesiastiche poi, il crescere del nazionalismo in Francia ed Inghilterra creavano un clima poco favorevole all'esistenza di monasteri autocratici e rispondenti ad una sede unica in Borgogna. Lo Scisma d'Occidente del periodo 1378-1409 divise ulteriormente le lealtà: la Francia riconosceva il Papa avignonese, e l'Impero, gli stati italiani e l'Inghilterra quello romano, dividendo e confondendo le relazioni.

                                 Stemma

                                      

Lo stemma dell'abbazia di Cluny è in rosso, a due chiavi d'oro a croce di Sant'Andrea, attraversate da una spada in palo a lama in argento ed elsa d'oro in punta.

La chiave e la spada fanno riferimento rispettivamente a San Pietro e San Paolo, ai quali è consacrata l'abbazia. Le chiavi a croce di Sant'Andrea sarebbero un privilegio di concessione papale.

                                                                                Abati

  919-927 Bernone da Baume

  927-942 Sant'Oddone di Cluny

  942-964 (948) Aimardo, Aymardus diventa cieco in quell'anno e

                          deve poi essere coadiuvato

  964-994 San Maiolo di Cluny dal 954 aiutante di Aimardo

  994-1049 Sant'Odilone di Cluny

  1049-1109 Ugo da Cluny

  1109-1122 Ponzio di Melgueil

  1122-1156 Pietro il Venerabile

 

 

 

 

            La Congregazione di Cluny, o Cluniacense, dell'Ordine di San Benedetto venne istituita il 2 settembre 909, quando Guglielmo I, duca d'Aquitania, donò la villa di Cluny a Bernone, abate di Baume, per fondarci un monastero di dodici monaci sotto la regola di san Benedetto.

L'abate Bernone stabilì nel monastero tale regola secondo la riforma di Benedetto d'Aniane. Fu però sotto l'abate Odone che la regola detta cluniacense fu adottata da altri monasteri, che formarono intorno a Cluny un vero e proprio impero monastico di priorati autonomi ma sottomessi al governo comune dell'abate di Cluny.

Il principio gerarchico si affievolì un po' verso il 1075, quando Cluny accettò nell'ordine delle abbazie, al fine di fare la sua parte nel vecchio sistema del monachesimo benedettino e di non dover rinunciare a integrare un certo numero di strutture pronte, come Vézelay, a passare nell'ordine di Cluny per beneficiare dell'esenzione ma desiderosi di non cadere al rango di semplici priorati.

L'espansione avanzò sotto gli abati Bernone (morto nel 927), Oddone (morto nel 942), Maiolo (morto nel 994), Odilone (morto nel 1048), Ugo di Semur (morto nel 1109), Pons de Melgueil (morto nel 1122) e Pietro il Venerabile (morto nel 1157).

Nel XII secolo, quello che si chiama ordine cluniacense conta circa duemila priorati, fra cui alcuni che sono fra le maggiori strutture ecclesiastiche del tempo: La Charité-sur-Loire, Souvigny, Saint-Martin-des-Champs vicino a Parigi. Se la maggior parte dei monasteri sono divenuti semplici priorati integrandosi nell'ordine, un piccolo numero vi è entrato conservando il rango di abbazia, ma accettando la disciplina comune e l'autorità superiore dell'abate di Cluny.

Direttamente sottomessa alla Santa Sede, Cluny è nell'XI secolo lo strumento efficace del successo delle istituzioni di pace e della riforma gregoriana. Molti papi e legati pontifici escono da Cluny. La rete cluniacense diffonde i principi della riforma contro i vizi di cui soffre la Chiesa presa dai collegamenti feudali col mondo laico: simonia, nicolaismo. Accusato a sua volta di un esagerato arricchimento e di un potere temporale eccessivo, l'ordine di Cluny perde di influenza spirituale alla nascita, alla fine dell'XI secolo e all'inizio del XII, di nuovi ordini ispirati ad un ideale di povertà e austerità : l'Ordine Cisterciense, i Premonstratensi, l'Ordine Certosino.

È dunque in opposizione completa con quello che sarà l'ideale Cisterciensi, per il quale Bernardo di Chiaravalle disputerà aspramente con Pietro il Venerabile, che Cluny diviene uno dei principali centri di vita intellettuale e artistica in Occidente.

Odon mette la storia santa in versi ed elabora una morale pratica. I sermoni di Odilon resteranno a lungo modelli di eloquenza elegante e concisa. Abbone di Fleury definisce gli equilibri del potere politico. Pietro il Venerabile chiama i cristiani alla conoscenza del Corano e ad un ricorso più frequente alle traduzioni dall'arabo. Cluny produce teologi, moralisti, poeti e storici.

L'architettura è un'altra affermazione della potenza e dell'influenza di Cluny. A una chiesa contemporanea alla fondazione che successe all'abbaziale di Bernone, poi quella degli abati Aymard e Maïeul detta Saint-Pierre-le-Vieux, di cui la pianta caratteristica, col suo coro pourvu de collatéraux, è più o meno riprodotta in tutto un gruppo di chiese monastiche. A questa succede l'abbaziale dell'abate Ugo, il cui coro è consacrato nel 1095. Cluny fa da modello. Si ritrova la pianta di Saint-Pierre-le-Vieux in Borgogna, in Germania, in Svizzera.

 

 

 

 

909-910 fondazione dell'abbazia su iniziativa di Guglielmo conte di Macon e duca d'Aquitania; inizialmente è una villa di tipo carolingio;

910 il monastero è dedicato ai santi Pietro e Paolo. Primo abate è Bernone che aveva già retto un convento a Gigny;

927 diventa abate Odone di origine aristocratica ed il suo ruolo è rilevante;

947 succede l'abate Emardo considerato un uomo semplice;

954 è il turno di Maiolo designato dal successore; raccolse un buon numero di donazioni per l'abbazia, ebbe buoni contatti con l'impero;

994 Maiolo muore mentre si reca da Ugo Capeto primo esponente di una nuova dinastia in Francia. Lascia un'abbazia in pieno splendore;

994 è abbate Odilone che reggerà Cluny per 55 anni;

1000 è il millennio ( mille e non piu' mille si mormora da molte parti); la regina Gerberga se ne era già preoccupata. In certe zone della Francia girava la teoria che con la coincidenza del Venerdì Santo con la data del 25 marzo, ci sarebbe stata la fine del mondo. In molti temono il peggio e gli echi arrivano anche a Cluny;

1049 è abate il giovanissimo Ugo di Semur ;

1088 Odone già priore di Cluny diventa papa con il nome di Urbano II

1095 Urbano II inaugura a Cluny la grande chiesa abbaziale che sarà ultimata più tardi. Secondo alcuni monaci Cluny è la sede del celeste "senato";

1109 nuovo abate Ponzio di Melgueil;

1113 Ponzio si reca in Spagna per la pace ; nel 1115 si dedica ai difficili rapporti fra Impero e Papato;

1119 l'arcivescovo di Lione e primate di Francia critica l'abate di Cluny ; poco dopo l'abbazia ha difficoltà economiche per via dei grandi lavori intrapresi;

1122 l'abate Ponzio e' invitato a Roma dal papa. Il pontefice lo invita ad un viaggio in Terrasanta e poi comunica ai monaci di Cluny le dimissioni dell'abate;

1122 è abate per tre mesi Ugo di Marcigny

1122 viene eletto il trentenne Pietro di Montboissier, ma Maiolo continua ad essere attivo ;

1127-28 Ponzio cerca di tornare a Cluny magari per una visita. Alla fine vi arriva mentre l'abbate è assente. Viene scomunicato dal legato apostolico e viene sottoposto ad un giudizio. La sua posizione si aggrava e muore chiuso in una torre;

1129 (circa) da qualche tempo Bernardo di Clairvaux attacca Cluny e Pietro "il venerabile" riesce appena a difendersi

1130 i borghigiani di La Charitè (un priorato indirettamente collegato a Cluny) si ribellano;

1132 Pietro il Venerabile convoca il Capitolo Generale della congregazione per migliorare la situazione;

1156 muore l'abate Pietro il Venerabile in un periodo difficile anche per la Chiesa ( a breve ci sarà un altro scisma)

1157 segue un periodo burrascoso; Robert Gros viene eletto ma poco dopo viene ucciso in un'imboscata di banditi; alla fine diventa abate Ugo III;

1160 (circa) Ugo III viene deposto ed al suo posto è eletto Stefano di Boulogne;

1166 nella regione ci sono numerosi soldati brabantini; Luigi VII scende in Borgogna ed a Clunny per ristabilire l'ordine;

1250(circa) Cluny ritorna al suo splendore;

1350(circa) inizia la decadenza; si sviluppano fra l'altro gli ordini mendicanti e circiestensi;

1562 gli Ugonotti devastano parte dell'abbazia;

1630-1640 anche il cardinale Richelieu pone delle limitazioni all'abbazia di Cluny;

1793 durante la Rivoluzione Francese , Cluny è saccheggiata;

1798 l'abbazia e' messa all'asta e viene acquistata da commercianti di materiali edili che, dopo qualche resistenza del sindaco e più tardi di un distratto Napoleone, smantellano per anni gli imponenti edifici;

 

 

 

"Dubitando perveniamo alla ricerca. Cercando percepiamo la verità" ("Sic et non", Prologus)

 

Pietro abelardo

 

La vita di Abelardo compendia emblematicamente i mutamenti e le irrequietezze dell'età nuova, in bilico tra il monastero e la scuola. Egli stesso ne ha svolto il racconto nella Storia delle mie sventure (Historia calamitatum mearum), seguita da una serie di lettere scambiate tra lui e l’amata Eloisa, nonchè da una regola destinata al monastero di Paracleto. Si tratta di una ricostruzione letteraria a distanza dai fatti, nella quale Abelardo presenta se stesso come vittima di invidie e complotti e la propria vicenda - sulle orme di Agostino -, come un itinerario dal peccato alla salvezza. Ma essa informa anche su alcuni fatti fondamentali della sua vita: Abelardo nasce nel 1079 a Pallet - a sud est di Nantes - nella Bretagna; figlio di un cavaliere, rinuncia ai beni e alla carriera delle armi per dedicarsi agli studi dapprima a Loches (nella zona della Loira), dove insegna Roscellino (l’iniziatore del cosiddetto "nominalismo") e poi a Parigi, dove fioriscono gli studi di dialettica. Qui segue le lezioni di Guglielmo di Champeux, ma ardisce criticarne le tesi sugli universali (Guglielmo sarà costretto a rivedere le proprie posizioni), cosicchè é costretto a trasferirsi prima a Melun, e poi a Corbeil, dove insegna a sua volta, riscuotendo grande successo e ottenendo una fama di grande dialettico. Dopo aver trascorsoqualche anno in Bretagna, torna a Parigi e ascolta nuovamente Guglielmo, divenuto canonico di San Vittore, ma nascono nuovi contrasti ; Guglielmo si ritira nell'abbazia di San Vittore e nel 1113 diventa vescovo di Chalons, mentre Abelardo tiene scuola a Parigi, sulla riva sinistra della Senna - a Sainte-Genevieve - allora situata fuori dalle mura della città. Dopo un altro viaggio in Bretagna, nel 1113 si reca a Laon, per studiare scienza sacra con Anselmo di Laon, ma nello stesso anno torna a Parigi, alla scuola episcopale nel chiostro di Notre-Dame, per insegnarvi non solo dialettica, ma anche teologia. In questo periodo - col denaro degli allievi - egli può vivere libero dal controllo delle superiori autorità ecclesiastiche. Qui avviene il suo incontro con Eloisa , nipote di un canonico di Notre-Dame, Fulberto: è amore a prima vista, Abelardo – convinto di essere bello e colto a sufficienza per far colpo sulla ragazza, che primeggia a sua volta per bellezza e cultura- fa di tutto per poter diventare suo precettore, e ci riesce. L'amore nasce improvviso verso la fine del 1115 o gli inizi del 1116 ; quando Fulberto li scopre, Eloisa é già incinta. Abelardo la porta in Bretagna presso la sua famiglia e qui - verso la fine del 1116 - Eloisa partorisce un figlio, al quale é dato il nome di Astrolabio ("rapitore delle stelle"). Tornati a Parigi, Eloisa e Abelardo si sposano in segreto, ma Fulberto divulga la notizia: la coppia smentisce e si separa, Eloisa si ritira ad Argenteuil, dove poi si farà monaca: Abelardo la ripudia come moglie perché teme di perdere i suoi privilegi. Fulberto e i parenti, adirati dalla volontà di Abelardo di liberarsi di Eloisa, si vendicano e lo fanno evirare da sicari nel cuore della notte. Verso la fine del 1117 o l'inizio del 1118 anche Abelardo prende l'abito monastico, ma continua a insegnare logica e teologia in una scuola aperta nella Champagne. Attaccato dai maestri della scuola episcopale di Reims per le tesi sulla Trinità sostenute nel suo scritto Teologia del Sommo Bene, é citato nel 1121 al Concilio di Soissons, dove l'arcivescovo e il legato pontificio lo condannano a bruciare il libro e a rinchiudersi in monastero a Soissons: a tal punto era temuto per il suo talento retorico, che gli vietarono di parlare in processo, nel timore che egli convincesse delle sue tesi la "platea", e così fu costretto a rispondere semplicemente con dei "sì" o con dei "no". Successivamente, il legato lo autorizza a rientrare nell'abbazia di Saint-Denis, ma qui insorgono nuovi contrasti con l'abate, che vuole accusarlo davanti al re. Abelardo fugge a Provins, ma una donazione gli permette di stabilirsi eremita con un discepolo a Quincey, dove fonda un oratorio, denominato il Paracleto, ossia lo Spirito Santo, e anche qui vi apre una scuola, sovvenzionata dagli allievi. Tra il 1125 e il 1128 lascia il Paracleto per diventare abate di Saint-Gildas nella diocesi di Vannes in Bretagna: qui trova monaci ignoranti, rozzi e viziosi, che cercano di farlo assassinare . Riprende contatti con Eloisa, ora badessa di Argenteuil, invitandola a stabilirsi con le monache al Paracleto, dove Abelardo periodicamente compie visite e pronuncia prediche. A questo punto terminano i fatti raccontati da Abelardo stesso, ma sappiamo che nel 1136 egli tiene nuovamente una libera scuola di dialettica e teologia a Parigi, ove ha tra i suoi discepoli anche Arnaldo da Brescia e Giovanni di Salisbury. Scoppia in questi anni l'ostilità di Guglielmo di Saint-Thierry e di Bernardo di Chiaravalle nei confronti delle sue dottrine: nel 1140 Bernardo ottiene dal concilio di Sens la sua condanna - ratificata dal papa - , Abelardo allora si ritira presso Pietro il Venerabile nell'abbazia di Cluny, in Borgogna, dove muore nel 1142.

 

IL PENSIERO

San Bernardo da Chiaravalle – fiero sostenitore delle Crociate e della "militia Christi"- definì Abelardo un combattente sin dall’infanzia e in una sua lettera a Eloisa , Abelardo stesso confessa : "la logica mi ha reso odioso al mondo ... ma io non voglio essere filosofo in modo da oppormi a Paolo, nè essere un Aristotele in modo da separarmi da Cristo". In una sostanziale adesione al messaggio cristiano, Abelardo non ebbe tuttavia mai dubbi sulle sue capacità intellettuali e argomentative: si definiva addirittura "il più grande filosofo del mondo", superiore a Platone e ad Aristotele. Il suo insegnamento e i suoi primi scritti riguardano la logica: l'ordine che egli segue é quello della "logica vetus", iniziando con la lettura dell'Introduzione di Porfirio alle Categorie di Aristotele. Abelardo compone glosse a questo scritto (le Glossae super Porphyrium), forse raccolte dai suoi uditori e poi riviste da lui stesso, poi una Logica per i principianti, e una Logica nostrum, e successivamente una Dialettica. In seguito, egli estende l'uso della dialettica anche all'esame di questioni teologiche e a partire dal 1118 compone, oltre alla Dialettica, la Teologia del Sommo Bene, la Teologia cristiana e il Sic et non. Abelardo scrisse anche glosse alla Lettera ai Romani di S. Paolo, sermoni, inni religiosi e probabilmente anche poesie d'amore . Tra i suoi ultimi scritti sono il Conosci te stesso (Scito te ipsum) o Etica, e , incompiuto , il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano. Gli interessi iniziali di Abelardo sono soprattutto per la logica o dialettica, che egli intende come arte di distinguere la verità o la falsità del discorso. I discorsi sono fatti di termini, si tratterà allora di investigare l'uso e il significato dei termini: questo orientamento rimarrà caratteristico di tutto l'itinerario d'indagine di Abelardo. Tra i termini sono soprattutto i termini universali, ossia i generi e la specie, come "animale" "uomo", "cavallo" e così via, a sollevare un greve problema. La tradizione del platonismo cristiano aveva identificato questi termini con le idee o le ferme presenti nella mente di Dio, le quali costituiscono i modelli archetipi delle cose create da Dio; quindi essi rappresentano anche la sostanza delle singole cose create, ciò che ciascuna di esse propriamente è. Per esempio, la sostanza dell'individuo Socrate è quella di essere un animale razionale: sono il genere (animale) e la specie (uomo) ai quali Socrate appartiene che determinano che cosa Socrate propriamente è. Questa soluzione del cosiddetto problema degli "universali" (così caro ai Medievali) sarà detta in età moderna "realismo", in quanto per essa l'universale è una realtà vera e propria, esistente autonomamente (alla pari delle idee platoniche). Ma all'inizio del XII secolo emergono nuove prospettive nell'affrontare questo problema, in particolare esse considerano l'universale non tanto dal punto di vista di Dio, quanto dal punto di vista dell'uomo che parla e pensa. Che cosa sono i termini universali, di cui i discorsi sono costellati? Uno dei primi maestri di Abelardo è Roscellino di Compiègne, nato verso il 1050 e morto verso il 1120. Di Roscellino è conservata soltanto una lettera ad Abelardo, ma il contenuto delle sue dottrine è ricavabile da quanto ne dicono i suoi avversari, Anselmo di Aosta e appunto Abelardo. Secondo Anselmo, Roscellino rientra tra quei dialettici, che ritengono che gli universali non siano altro che emissioni di voce (flatus vocis); alla base di questa concezione ci sarebbe l'assunzione che realtà vere e proprie sono soltanto quelle individuali e che i termini universali sono soltanto parole, suoni fisici, sensibili, i quali non si riferiscono a presunte entità universali: tale dottrina sarà denominata in età moderna nominalismo estremo. Essa mostrava la sua pericolosità non appena veniva applicata ad un problema teologico come quello della Trinità; Anselmo infatti accusa Roscellino di prevenire, mediante le sue premesse nominalistiche, a una sorta di triteismo, ossia a concepire le tre persone della della Trinità come tre individui distinti, poichè l'unità della Trinità non sarebbe per lui un’unità di sostanza, ma soltanto di somiglianza o uguaglianza. Nel 1092 questa dottrina trinitaria è condannata dal Concilio di Reims come eretica. L'altro maestro con cui Abelardo inizialmente studia è Guglielmo di Champeaux (1070-1121 circa). In una prima fase, questi è sostenitore di una forma di realismo: gli universali, ossia i generi e le specie, sono entità reali esistenti in sè. Una specie è una sostanza unica, che è presente essenzialmente, non accidentalmente, in tutti gli individui che ne partecipano; gli individui differiscono, dunque, tra loro soltanto per accidente. Così la specie uomo é presente in tutti gli individui, quali Socrate, Platone e così via, che sono appunto detto uomini. Le differenze tra gli individui rientranti nella stessa specie sono date esclusivamente da proprietà accidentali, variabili e casuali (per esempio, statura, colore dei capelli, professione e così via). A questa posizione Abelardo mosse l'obiezione che essa conduceva a ritenere inessenziali le differenze tra specie e tra individui (e Guglielmo cambiò allora idea). La concezione di Guglielmo comporta, infatti, che il genere animale sia presenta in tutti gli animali, sia privi sia dotati di ragione; di conseguenza l'essere o no dotati di ragione non costituisce una differenza sostanziale. Ma allora vi sono due possibilità: o nella stessa sostanza (animale) ci saranno proprietà contrarie (razionalità e irrazionalità) oppure queste proprietà, trovandosi in un'unica sostanza, non saranno più contrarie. La prima alternativa é assurda, perchè i contrari non possono coesistere in una stessa sostanza: come non si può contemporaneamente bianchi e neri, così non si può essere insieme razionali e irrazionali; ma é assurda anche la seconda alternativa, perchè possedere la ragione é il contrario di non possedere la ragione. Se la sostanza dell’uomo e del cavallo è, parimenti, l’essere animale, dobbiamo forse dire che la razionalità è un accidente? Forse in seguito a queste critiche di Abelardo, Guglielmo corresse la propria teoria, sostenendo che gli universali sono presenti negli individui non essenzialmente, ma in maniera "indifferenziata". Per esempio, Socrate e Platone sono entrambi uomini, in quanto in ciascuno di essi é presente l'universale, la specie uomo, ma questa é presente in essi non essenzialmente, bensì indifferentemente: Guglielmo intende dire che ciò rispetto a cui Socrate é un uomo non é differente da ciò rispetto a cui Platone é un uomo. Abelardo riprende la definizione aristotelica di universale come ciò che può essere predicato di molte cose: di Socrate si può dire che é uomo, ma questo si può dire anche di Platone o di Aristotele. Se é così, l'universale non é nè una realtà a sè stante, nè un puro suono: Abelardo respinge in tal modo sia il realismo, sia il nominalismo estremo. L'universale non può essere una res, una cosa, poichè una res é un'entità individuale autosussistente e in quanto tale non può essere predicata di un'altra. Non si può dire di una cosa individuale, per esempio Socrate , che é un'altra cosa individuale, per esempio Platone, proprio perchè - secondo Abelardo - una res non può essere predicata di un'altra res: viene così smentita la possibilità che gli universali siano entità a se stanti. Ma se l'universale non é una res, ciò non vuol dire che esso sia un puro suono, perchè anche un suono, per esempio il suono "Platone", é un'entità individuale e quindi anch'esso non può essere predicato di altro. La soluzione di Abelardo (non assimilabile né al realismo né al nominalismo) consiste nel dire che l'universale é sermo, ossia parola, ma parola intesa non come semplice insieme di suoni fisici, bensì dotata di significato, ossia riferentesi a qualcosa. Il problema degli universali diventa allora il problema di che cosa e come significhino questi termini universali e le proposizioni che essi contribuiscono a costituire. Il testo a cui Abelardo si richiama per elaborare la sua teoria del significato é il De interpretatione di Aristotele. L'immaginazione, che Aristotele aveva chiamato fantasia, forma immagini di ciò che non é più presente ai sensi, ma anche di cose irreali che non sono mai state presenti ai sensi (per esempio, di mostri). Inoltre, é possibile formarsi immagini di entità particolari, per esempio di Platone, ma anche di corporeità o di razionalità o di uomo in generale. In quest'ultimo caso, si tratta dell'immagine comune e confusa di tutti gli uomini, di ciò che essi hanno di simile, senza che sia proprio di uno o qualcuno soltanto di essi. Di per sè, le immagini non sono sostanze: esse sono usate come segni per riferirsi ad altre cose: infatti quando si sente la parola "uomo" sorge nell'animo - secondo Abelardo - qualcosa che si riferisce agli uomini individuali presi in comune e non ad uno di loro con precisione. Tale posizione sarà in seguito denominata concettualismo. Mediante termini dotati di significato, si possono formare proposizioni dotate di significato, per esempio , la proposizione "Platone é uomo". In tal caso, si considerano le due immagini – Platone e uomo - e mediante esse l'intelletto giunge a comprendere la verità di questa proposizione. Ma le proposizioni non sono come i nomi propri (per esempio, il nome di persona Platone), che si riferiscono semplicemente e direttamente a cose. Chiariamo questo punto con un esempio: la proposizione "se x é un uomo, x é un animale" é vera anche nel caso che ogni forma di vita sia distrutta nel mondo. Ossia, come si è detto, "ciò che la proposizione asserisce può sussistere anche quando non sussistono più gli oggetti denotati": se anche sparissero improvvisamente dal mondo tutte le rose, il termine "rosa" continuerebbe ad avere il suo significato. In altre parole, le proposizioni non significano cose, ma relazioni tra cose, il modo in cui le cose sono tra loro collegate; è in riferimento ad esse che si può dire se una proposizione è vera o falsa. Il verbo "essere" usato come copula ("il sole è splendente") non indica che una qualità appartiene o inerisce a un soggetto, ma che due termini sono correlati tra loro in un determinato modo. Questa analisi della proposizione può essere utilizzata per chiarire il modo in cui i termini universali significano qualcosa o si riferiscono a qualcosa. Infatti , secondo Abelardo, non esiste un'entità uomo, esistono gli uomini: tuttavia gli uomini sono simili nello status (o natura) di essere uomini; questo status però non é una cosa, ma non é neppure nulla: é il modo in cui le cose sono. E' questo status che fa sì che noi possiamo usare la parola uomo per descrivere tutti gli uomini. Nel comprendere i termini universali e le proposizioni contenenti termini universali, l'intelletto umano é aiutato dall'immaginazione, che forma immagini di ciò che é comune e delle relazioni tra le cose menzionate nella proposizione. Ad esso, tuttavia, compete il compito di giudicare la verità o la falsità delle proposizioni; in tal senso, la logica, (o dialettica) é appunto la disciplina che discrimina tra vero e falso. Scrive Abelardo sulla questione degli universali nelle Glosse su Porfirio:

"Viste le ragioni per le quali le cose né singolarmente né collettivamente prese si posson dire universali, in quanto l’universale si predica di molti, resta che attribuiamo l’universalità solo alle parole.

Come dunque certi nomi son detti dai grammatici appellativi, e certi altri propri, cosí dai dialettici certe espressioni semplici son dette universali, certe altre particolari, ossia singolari. L’universale è un vocabolo trovato in modo da esser capace di essere predicato singolarmente di molti, come per esempio il nome uomo è unibile ai nomi particolari degli uomini, per la natura dei soggetti reali ai quali è imposto. Il singolare, invece, è quello che è predicabile di uno solo, come per esempio Socrate, quando è preso come nome di un uomo solo. Se infatti lo si assume equivocamente, non si ha piú una parola sola, ma molte per il significato, poiché, secondo Prisciano, molti nomi possono essere impliciti in un’unica espressione verbale. Quando si descrive l’universale come ciò che si predica di molti, quel ciò che non solo indica la semplicità dell’espressione per distinguerlo dai discorsi composti, ma anche l’unità del significato, per distinguerlo dai termini equivoci".

Della concezione abelardiana si ricorderà lo stesso Umberto Eco, in Il nome della rosa, quando – in chiusura del suo capolavoro – scriverà: "stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus". Abelardo passa successivamente ad affrontare questioni teologiche, quando ha ormai elaborato questo ricco bagaglio di analisi logiche: ritiene che, finchè la ragione è nascosta, è necessario ricorrere all'autorità; ma in ciò che può essere discusso dalla ragione, tale ricorso non è più necessario. Sulle cose divine la ragione da sola è insufficiente, può pervenire soltanto a soluzioni verosimili, non contrarie alla fede. Ciò non significa che sulle cose della fede non si debba discutere: anche per credere occorre intendere (come già diceva Anselmo) ciò che si crede e rendersi conto che i contenuti della fede non danno luogo a proposizioni contraddittorie. Inoltre, per controbattere coloro che fanno un cattivo uso della dialettica anche in ambito teologico, occorre, comunque, saper usare la dialettica. Abelardo afferma nella Dialettica: "Ogni scienza è buona, anche quella che tratta del male". Il ricorso alla ragione è tanto più importante in quanto non di rado i Padri della Chiesa paiono enunciare opinioni contrastanti sulle stesse verità della fede: Abelardo è tra i primi a formulare una serie di criteri per valutare ed eventualmente appianare tali divergenze. Ciò avviene in una delle opere più emblematiche dal punto di vista del metodo, il Sic et non, letteralmente il "sì e no". E' uno scritto a carattere didattico, che intende addestrare i giovani teologi alla ricerca della verità: si parte da un problema, si elencano le soluzioni non di rado contrastanti, almeno apparentemente, date ad essa da parte dei Padri della Chiesa, desumendole dai loro scritti, e infine si tenta d'individuare dove stia la verità. Nel Sic et non, Abelardo affronta circa 150 problemi teologici, raggruppati per temi. Per dissolvere o ridurre le apparenti contraddizioni nelle soluzioni proposte dalla tradizione, Abelardo enuncia alcune regole: in primo luogo, si tratta di accertare se certe espressioni non sono poi smentite dagli stessi autori oppure se riferiscono opinioni altrui, inoltre, occorre soprattutto tener conto del fatto che le medesime parole sono sovente usate da autori diversi con significati diversi, perché ogni autore ha un suo specifico modo di parlare e di scrivere. Tenendo conto di ciò, "si troverà per lo più facile la soluzione delle controversie", tuttavia, in casi di contrasto insanabile occorrerà dare la preferenza alle tesi che hanno maggiori argomenti a loro favore. In tal modo, Abelardo rivendica libertà di giudizio anche nei confronti delle opere dei Padri, le quali non devono essere lette con l'obbligo di credere. Ciò conduce Abelardo a rivalutare i contributi dei filosofi pagani: anch'essi già prima di Cristo hanno scoperto alcune verità; la rivalutazione della filosofia antica e la formidabile padronanza dialettica varranno ad Abelardo il soprannome di "Peripatetico palatino". In questo modo, egli si riallaccia ad una impostazione tipica della prima riflessione filosofica cristiana. Gli stessi filosofi pagani hanno in qualche modo riconosciuto la Trinità, quando hanno parlato di Dio, dell'Intelletto divino e dell'Anima del mondo, che Abelardo avvicina allo Spirito Santo: negli ultimi anni del suo soggiorno a Cluny, Abelardo scrive il Dialogo tra un giudeo, un filosofo e un cristiano, rimasto incompiuto. L'Abate di Cluny, Pietro il Venerabile, era un fautore del dialogo con l'Islam e questo scopo egli aveva anche fatto tradurre in Spagna il Corano in latino. I tre personaggi dell'opera di Abelardo credono tutti in un Dio unico, ma due hanno leggi scritte, mentre il filosofo si accontenta della sola legge naturale . Dapprima dialogano il giudeo e il filosofo, che non può accettare una religione fondata esclusivamente sulla Scrittura, poi dialogano il filosofo e il cristiano, che mostra il carattere ragionevole della fede. Non é irrilevante il fatto che, proprio in riferimento al soggiorno di Abelardo a Cluny, con Pietro il Venerabile, il filosofo del dialogo sia nato in un paese dell'Islam. L’opera si apre con una rapida introduzione in cui a parlare è Abelardo stesso, che così racconta: "in una visione notturna, vidi tre uomini che arrivavano per sentieri diversi" – chiara allusione alle tre differenti prospettive di cui essi son portavoce. Tutti e tre adorano sì lo stesso Dio, ma in maniere assai diverse: il filosofo è illuminato dalla sola legge naturale, gli altri due dal Libro. Si recano da Abelardo per chiedergli di essere giudice di un confronto che li vede contrapposti: si tratta di un confronto tra i tre diversi tipi di religione. Abelardo, sbalordito, domanda perché abbiano scelto proprio lui come giudice e il filosofo gli rivela che è stato lui a prender tale decisione, poiché muove alla ricerca della verità sotto la sola guida della ragione, evitando le opinioni. Il filosofo, inoltre, sostiene (e in ciò leggiamo il pensiero dello stesso Abelardo) che il vero obiettivo della filosofia (e di ogni altra disciplina) è la morale, ossia lo studio del sommo bene e del sommo male; il filosofo dichiara apertamente di volersi confrontare col cristiano e col giudeo per esaminare quale tra le due religioni sia più vicina alla ragione e, dunque, da seguire, ma giunge ben presto alla conclusione che "i giudei sono stolti, i cristiani pazzi". Poiché i tre, da soli, non riuscivano a concludere la loro discussione, si sono rivolti ad Abelardo, che ben conosce la filosofia e la religione (è un evidente auto-elogio del pensatore, che per bocca del filosofo del dialogo è detto il migliore, autore di opere eccelse, anche se "l’invidia non potè sopportare"). Abelardo, sinceramente onorato che la scelta sia ricaduta su di lui, ammonisce preliminarmente il filosofo, mettendolo in guardia: a differenza dei suoi due interlocutori – che possono usare contro di lui una sola "spada" -, egli può attaccarli con due "spade", ossia criticandoli sia per quel che riguarda la ragione sia per quel che riguarda la loro fede: la sua armatura filosofica è, dunque, superiore in partenza. A tal punto, il filosofo spiega che spetta a lui porre la prima domanda, poiché la legge naturale (della quale egli si nutre) viene prima rispetto alla religione: egli chiede allora, rivolgendo una domanda che tange parimenti i suoi interlocutori, se essi si siano accostati alla fede perché indotti dalla religione o perchè spinti dalle tradizioni familiari e, quindi, dalle opinioni. Nel primo caso, la scelta sarebbe legittima; ma nel secondo da ripudiare: e al filosofo pare proprio che si opti per la fede esclusivamente per motivi familiari, e adduce come prova del suo asserto il fatto che, quando si sposano due individui di fedi diverse, capita sempre che uno dei due si converta alla fede dell’altro coniuge. Orazio stesso diceva che "la giara ricorderà a lungo l’odore di ciò di cui è stata riempita". Il filosofo mette dunque in luce la necessità di cercare criticamente il senso delle proprie scelte, e Abelardo condivide pienamente tale prospettiva, lui che arriva – anselmianamente - alla fede senza respingere la ragione.

Le tre opere fondamentali di teologia di Abelardo riguardano soprattutto il problema della Trinità. Egli non pretende di dire la verità sulla Trinità, in quanto la ragione umana non é in grado di cogliere pienamente i misteri divini, tuttavia con l' ausilio di analogie - come aveva già fatto Agostino -, è a suo avviso possibile raggiungere almeno il verosimile. Abelardo ritiene che la distinzione fra le tre persone divine poggi sulla distinzione fra gli attributi divini e, precisamente, con il nome del Padre si indica la potenza, con quello del Figlio la sapienza e con quello dello Spirito Santo la carità. Ma poiché tali attributi in Dio costituiscono un'unità, i rapporti tra le persone divine possono essere spiegati in termini di derivazione di una dall'altra: il Padre genera il Figlio, che è della stessa sostanza del Padre, in quanto la sapienza non è che quella particolare forma della potenza divina per cui essa non può essere ingannata, invece, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, perchè la carità senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza procederebbe a caso e non condurrebbe al meglio. Però in tal modo lo Spirito Santo non risulta essere della stessa sostanza del Padre e del Figlio: fu questo un punto che suscitò gli attacchi contro Abelardo, in particolare san Bernardo ritenne che esso conducesse a negare qualsiasi potenza dello Spirito Santo. Un esempio di applicazione della dialettica a una questione teologica è dato anche dalla discussione di Abelardo del problema dei cosiddetti futuri contingenti. Secondo Abelardo, l'azione di Dio, che è onnipotente, è necessaria: Dio non può fare altro che ciò che fa, ossia il bene; infatti, Dio fa ciò che vuole, ma ciò che egli vuole, in perfetta libertà, senza essere costretto da nulla, è il bene. Ora, Dio prevede tutto, anche gli eventi futuri. Ciò significa che egli determina il loro necessario verificarsi? Oppure gli eventi futuri continuano a essere contingenti, ossia non necessari? Per l'uomo gli eventi futuri sono indeterminanti; egli non può sapere anticipatamente se le proposizioni che riguardano questi eventi sono vere o false, mentre Dio non può conoscere se esse sono vere o false, e tuttavia Dio prevede gli eventi futuri come contingenti. A ciò si potrebbe obiettare: è possibile che le cose avvengano diversamente da come Dio ha previsto, altrimenti esse non sarebbero più contingenti, ma in tal caso si avrebbe come conseguenza che Dio si può ingannare nella sua previsione. La risposta di Abelardo è che sono possibili due interpretazioni: o qualcosa che Dio ha previsto ha la possibilità di avvenire diversamente oppure è possibile che qualcosa avverrà diversamente da come Dio ha previsto, ma poichè non è possibile che Dio si sbagli, la sola possibilità che qualcosa si verifichi diversamente si riferisce dunque non al prevedere di Dio, ma a ciò che è previsto. Nell'ultimo periodo della sua attività, Abelardo apre un nuovo territorio alla sua riflessione: l' etica, alla quale dedica un'opera intitolata appunto Conosci te stesso o Etica, riprendendo nel titolo l’enigmatico motto inciso sul tempio di Apollo a Delfi (gnwqi sauton). L' antica formula "conosci te stesso" dell'oracolo delfico, ripresa da Socrate, è usata da Abelardo per indicare all'uomo la conoscenza della propria miseria, dovuta al peccato, ma allo stesso tempo, la propria somiglianza con Dio. Abelardo distingue tra vizio e peccato: infatti, il vizio è un'inclinazione naturale al peccato, ma di per se non è peccato. Con questa affermazione, Abelardo si oppone alle forme di ascetismo, che considerano forme del peccato quelle che sono invece inclinazioni proprie della natura umana; in tal senso, contro l'ultimo Agostino, Abelardo rivendica la naturalità dell'inclinazione al piacere sessuale, che non potrà mai essere estirpata dall’uomo. Proprio in quanto naturali, le inclinazioni sono ineliminabili, possono soltanto essere contrastate; peccato è invece il consenso dato a queste inclinazioni: esso è un atto di disprezzo nei confronti di Dio, un non fare ciò che egli vuole o un non tralasciare ciò che egli vieta. In sostanza, finchè penso di commettere il male sono nell’ambito del vizio; quando invece lo compio realmente, sono nell’ambito del peccato. L'azione che eventualmente deriva dall'atto di consenso dato ad una cattiva inclinazione non aggiunge nulla al peccato stesso. Nel caso in cui il consenso interiore dato dall'inclinazione cattiva, per esempio, di uccidere un rivale, non si traduca nell'azione corrispondente, il peccato continua sempre a sussistere in tutta la sua gravità; né, d'altra parte, un'azione cattiva è di per se peccato se manca il consenso ad essa. Per esempio, colui che per sfuggire a un aggressore, per caso lo uccide, compie un'azione cattiva, ma non commette peccato, che è il vero male dell'anima. Così, una stessa azione commessa dallo stesso uomo in momenti diversi può essere buona o cattiva, a seconda dell' intenzione dell' anima. Su questa base, Abelardo giunge addirittura ad avanzare l' ipotesi che gli stessi persecutori di Cristo e dei martiri non abbiano peccato, in quanto non hanno agito per disprezzo di Dio. L' ignoranza non è peccato, ne lo è l' essere infedeli, anche se questa condizione impedisce di essere salvati. D' altra parte, lo stesso peccato originale, in quanto contrassegna i successori di Adamo senza che ci sia da parte loro consenso, non può essere considerato propriamente peccato: esso è piuttosto la pena di un peccato. Tutte queste proposizioni saranno condannate nel Concilio di Sens, ma, in realtà, con esse Abelardo si opponeva al formalismo e al legalismo ecclesiastico. Non è l'agire esteriore, ma l' intenzione che qualifica ciò che è bene o male; l'atto è buono o cattivo soltanto in virtù dell' intenzione che lo determina. Di qui, l' importanza della contrizione rispetto all' assoluzioneper il peccato commesso: la prima riguarda l' interiorità, la seconda è una liberazione puramente esteriore e e formale. Un' analoga protesta contro il formalismo e la corruzione ecclesiastica animava all' epoca i movimenti religiosi popolari. Non è un caso che la scuola di Abelardo fosse frequentata anche da Arnaldo da Brescia, che non molto tempo dopo la morte di Abelardo lottò contro il potere temporale dei papi, instaurando in Roma un libero comune. Abelardo, tuttavia, riconosce che in terra è giusto che gli uomini siano puniti o ricompensati in base alle loro azioni: solo Dio, infatti, e non l' uomo, è in grado di giudicare le intenzioni.

 

Historia Calamitatum Mearum

Nell'autobiografia del maestro e filosofo Abelardo Historia Calamitatum Mearum (Storia delle mie disgrazie), la presenza di Eloisa con il suo amore e i suoi discorsi sottili e appassionati, occupa un quinto dell'opera: poco, se misurata con il metro dei romantici per i quali è la vicenda d'amore a dare grandezza ai due personaggi, tanto, se lo misuriamo sull'egotismo dell'autore e sulla tendenza misogina di quei tempi. E ricordiamo l'altra pagina, quella appena citata, così importante da spingerci a supporre un filo di doloroso amore lungo tutta la vita dei due protagonisti. Sicuramente lungo tutta la vita di Eloisa. Quali erano stati i ricordi della giovane donna in quei dieci anni trascorsi all'Argenteuil? Le sue prime parole, scritte verosimilmente nel 1132, si riferiscono ai primi anni di vita sigillata nel silenzio e ci dicono che Eloisa non poteva dimenticare. Ascoltiamola: "Anche quando dormo immagini ingannevoli mi perseguitano; persino durante la messa, quando la preghiera deve essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima. lo sono costretta ad abbandonarmi a queste fantasie incapace persino di pregare. Invece di piangere, pentita per il passato, sospiro rimpiangendo quello che ho perduto. Ho davanti agli occhi sempre e soltanto te, l'amore che abbiamo avuto, i luoghi dove ci siamo amati, i momenti dove siamo stati vicini. Mi sembra di essere li ancora e neppure nel sonno riesco a calmarmi. Talvolta da un leggero movimento del mio corpo o da una parola che non sono riuscita a trattenere tutti capiscono i miei pensieri".

Eloisa era dunque ancor giovane, "facile preda", come lei scrive, "delle lusinghe del piacere già gustato e il ricordo stesso dell'amore vissuto raddoppiava il desiderio". Era stata una passione grande, esaltata da una vicinanza intellettuale e dallo stesso clima di popolarità e successo in cui vivevano maestro e allievo. Abelardo ricorderà nella sua biografia che nelle strade, in quei giorni felici, gli studenti passavano cantando le canzoni da lui composte per Eloisa. La ragazza aveva allora sedici anni, lui era vicino ai quaranta.

Nel quadro dei ricordi della sua Historia, Abelardo parla in modo contraddittorio dell'inizio del loro amore. Uomo di successo, professore amato dagli allievi (lo sarà sempre nella vita, anche dopo la tragedia), afferma che la "grazia divina lo guarì dalla superbia umiliandolo e dalla lussuria privandolo dei mezzi con i quali esercitarla". Una frase brutale, che mette sullo stesso piano amore e sesso, come quando più avanti scrive quasi con freddezza di aver studiato una strategia, assedi e manovre, per far cedere Eloisa. Ma subito dopo afferma che "bruciava d'amore". Scrive la parola "amore", con "voluttà" e lui, professore di logica, non era tipo da usare le parole a cuor leggero. La sua innamorata, più tardi, rovescerà questo ricordo forse con un'ultima astuzia (una "lusinga tipicamente femminile", commenterà il Petrarca).

"Ecco quel che penso e tutti sospettano: i sensi e non l'affetto ti hanno legato a me, ti attraevo fisicamente ma non ero veramente amata da te. Quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse tutte le prove di affetto con le quali nascondevi le tue reali intenzioni".

Eloisa scrivendo tanti anni dopo, ha dunque guardato alla sua vicenda in due modi diversi. Appartiene all'Eloisa nell'aria brillante di quei giorni felici la festosa esaltazione: "Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via [ ... ]. Quale regina, quale donna potente non invidiava le mie gioie e il mio letto? Avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu eri [...]. Eri giovane, bello, intelligente".

E' invece dell'Eloisa silenziosa monaca da molti anni l'amara protesta di non essere mai stata veramente amata, ma solo desiderata fisicamente. Ai giorni tristi della separazione è congeniale il lamento per la sensualità di Abelardo, per quello che la donna considera "l'aspetto esteriore" e inferiore del suo amore. Lamenti, puntigli, svalutazioni molto comprensibili nella pena della solitudine, ma contraddetti da altre parole e ricordi: "Componevi per me quasi come per gioco quelle canzoni amorose che, divulgate dappertutto per la soavità delle parole e la bellezza della musica, ti resero famoso anche fra la folla dei semplici (...). Le donne sospiravano e poiché le canzoni celebravano il tuo amore per me, anche il mio nome divenne famoso e io ero invidiata in tutti i paesi (...)".

Anche l'oramai vecchio e malato abate Pietro Abelardo sì lascia sfuggire: "Abbiamo attraversato tutte le fasi dell'amore e se in amore si può inventare qualcosa noi lo abbiamo inventato. Il piacere che provavamo era tanto più grande perché prima non l'avevamo conosciuto e non ci stancavamo mai (...) aprivamo i libri ma si parlava più di amore che dì filosofia, erano più i baci che le spiegazioni [ ... ]. L'amore attirava i nostri occhi più sovente che la lettura ai libri (...)".

Erano dunque ì due anziani ex amanti ancora immersi dopo la lunga separazione nega disputa amorosa? E allora si erano capiti? Certamente si erano amati e anche allora avevano ragionato d'amore. Una coppia come la loro, maestro e allieva, non era cosa rara. Carteggi e poemi dell'epoca moltiplicano davanti ai nostri occhi questa immagine che è anche un topos: lei bella e giovane, lui maturo e famoso, nutriti ambedue di filosofia, si amano completamente. Chi parla è sempre la donna che a voce chiara afferma che il suo amore è vero, non mosso da avidità di ricchezza e di onori, dalla vanità e dalla sensualità.

E' amore fondato sul valore dell'amato, come insegnava Cicerone nel suo De amicitia, livre de chevet del secolo per il chierico e per la dama. Amore nato dunque da virtù, amore che non si cura dì sé ma solo dell'altro, singolare mescolanza di libera scelta e di resa fatale di fronte all'eccellenza dell'oggetto amato. Eloisa del resto di questo era consapevole: "Quale filosofo poteva vantare una fama pari alla tua [ ... ] quale sposa, quale vergine non si consumava quando non c'eri e non diventava di fiamma quando le eri accanto?".

Ma in quel rapporto amoroso c'era dell'altro, una attitudine tipica della cultura medievale per cui il singolare poteva contenere l'universale e l'individuale, divenuto simbolico, alludere al contesto più ampio. Ogni situazione diventava in tal modo significativa, senza che la verità del momento venisse cancellata. Nella coppia maestro-allieva la donna rappresenta l'anima che cammina sulle vie della sapienza aiutata dall'amore per la filosofia: studiare, leggere insieme e amarsi trasporta la vicenda erotica a un superiore livello di immaginazione e forse di intensità. I due, Eloisa e Abelardo, si amarono di fronte alla città senza discretio, anzi con spavalderia: non misero in pratica nessuno degli accorgimenti che l'amante cortese usava per nascondere i suoi amori e l'identità della dama, in questo stupendamente fuori dal loro tempo e ben consapevoli, soprattutto Eloisa della loro singolarità.

Ma ciò non poteva avvenire senza conseguenza. Scriverà Abelardo: "D'altra parte mano a mano che mi lasciavo trasportare dalla passione avevo sempre meno tempo per i miei studi filosofici e trascuravo anche la scuola. Andare a far lezione mi riusciva penoso e anche faticoso perché le mie notti erano dedicate all'amore e le giornate allo studio. Facevo lezioni trascurate e prive di entusiasmo: non dicevo nulla di originale e frutto del mio ingegno, ma soltanto cose suggerite dalla mia lunga pratica. Mi limitavo a ripetere quello che avevo trovato con il mio ingegno nel passato [. .. ] le uniche cose nuove erano le mie canzoni d'amore, quelle canzoni ancor oggi cantate in molte regioni da coloro ai quali la vita sorride come allora sorrideva a noi [ ... ]".

Dall'Historia sembra dunque di indovinare che le canzoni vennero dopo, a conquista avvenuta, e non per addolcire la resa di Eloisa. La ragazza non gli aveva già ceduto nelle notturne veglie di studio quando studiavano "Parlando d'amore"? Abelardo spontaneamente, imprudentemente, dichiarava nei canti il suo amore per la ragazzina, lui, il maestro le cui vicende non potevano non interessare tutta la Parigi di allora. La reazione della famiglia di lei fu immediata: lo zio tutore li scoprì e li separò.

Ma era ancora il tempo dell'amore: "La separazione materiale avvicinò ancor più i nostri cuori e l'impossibilità di soddisfare il nostro amore ci infiammava ancor più; perfino la consapevolezza dello scandalo irrimediabile ci aveva resi insensibili allo scandalo stesso. La nostra colpa ci appariva trascurabile di fronte alla dolcezza del piacere reciproco".

Eloisa aspetta un bambino e scrive a Pietro piena di entusiasmo, senza timori sorprendendoci ancora una volta con la sua dichiarazione di gioia. Nella gravidanza non vedeva certamente un motivo per un matrimonio: è verosimile invece che vi scorgesse il segno chiaro e splendido del suo legame con Pietro. Come in un moderno romanzo popolare, Abelardo rapisce Eloisa e la porta fin nella lontana Bretagna in casa della sorella. Dopo la nascita del bambino, lo zio Fulberto, impazzito per la vergogna, pensa di uccidere l'amante colpevole, poi accetta la richiesta di perdono fatta da Abelardo, confuso e sconvolto, e l'offerta di un matrimonio riparatore. Un'offerta, si direbbe, fatta con una certa condiscendenza dal giovane e ambizioso professore: "gli feci una proposta che andava al di là di ogni sua speranza, dicendomi pronto a sposare la ragazza che avevo sedotto a patto che ciò avvenisse in segreto".

A questo punto, meravigliandoci ancora una volta, Eloisa entra con prepotenza in scena e dichiara ad alta voce il suo parere, rifiutando il matrimonio con ragionamenti che possiamo leggere nelle due versioni, quella di Abelardo e quella di lei. Sostanzialmente coincidenti, la seconda ha sfumature che Petrarca nella sua lettera troverà "assai femminili".

Ma gli eventi precipitano verso la tragica conclusione. Eloisa si rassegna al matrimonio che non vuole "non osando dispiacere oltre al suo amato" e dichiara: "Non ci rimane che perderci l'un l'altro e soffrire più di quanto abbiamo amato". Abelardo anni dopo scriverà: "In questo fu profetessa".

Il matrimonio clandestino non li mette al sicuro, dal momento che la famiglia di Eloisa per ottenere completa riparazione divulga il segreto, benché la giovane donna giuri mentendo che le nozze non sono mai avvenute. Esasperato, Abelardo la rapisce ancora una volta e la porta al fatale Argenteuil vestita da monaca. Fulberto e i suoi vedono un ripudio offensivo e un tradimento della parola data: di notte, dopo aver corrotto un servo, fanno sorprendere nel sonno dai sicari Pietro e "lo puniscono con la più crudele delle vendette, tagliando quella parte del corpo che era stata strumento del suo peccato".

Una vendetta, ai nostri occhi di moderni, spettacolare e odiosamente gratuita, ma in quel tempo una vendetta familiare, quasi doverosa, da parte dell'offeso, secondo la consuetudine della legge non scritta, non frequente ma neppure eccezionale. Il diritto consuetudinario preferiva la vivida concretezza della pena corporale a quella traslata e pecuniaria, conservando comportamenti antichi e mantenendo nel profondo della società, già nuova dei XII secolo, un sistema di rapporti che avevano lo stesso prestigio della legge scritta. Tuttavia Abelardo viveva in una posizione sociale privilegiata e, per quanto comprensibile, la vendetta di Fulberto non fu approvata: "la moltitudine dei chierici e dei maestri si lamentò; si lamentarono i cittadini giudicando questo atto come un'offesa fatta a loro". Le donne piansero perché "avevano perduto un così bel cavaliere".

Molti anni dopo Abelardo ha dimenticato quei primi momenti di collera e ribellione e sublima la tragedia nel significato positivo che doveva avere nel disegno divino per la sua salvezza. Ma Eloisa anche dopo tanto tempo, dal suo chiostro silenzioso, giudicherà il delitto ingiusto e incomprensibile. "Mentre ci abbandonavamo felici alle gioie dell'amore la severità divina ci risparmiò, ma appena la nostra unione divenne legittima con il matrimonio ecco che la collera divina ci colpì in piene; (...) Il castigo che hai subito non te lo sei meritato: hai patito per la tua legittima sposa ciò che di solito è conseguenza di un amore illecito con un'adultera (.. ). A peccare eravamo stati in due, ma tu solo hai pagato, tu che eri meno colpevole perché ti eri abbassato fino a me (...)".

In un comprensibile stato di confusione, "più per vergogna che per vera vocazione", Abelardo cerca rifugio, lui professore e maestro di città abituato alla popolarità e alle aule della scuola di Parigi, in un monastero, nella vicina Abbazia di Saint-Denis.

"Da filosofo del mondo, dice, diventerò filosofo di Dio". Ma prima si preoccupa del destino di Eloisa e lo fa senza ascoltarla, con prepotenza che si può comprendere, ma non giustificare: Eloisa ubbidisce ancora una volta e "per suo comando prende il velo" all'Argenteuil. A un anno dal loro incontro, i nostri due personaggi sono completamente cambiati: Abelardo, prima giovane professore di successo, è ora un monaco malandato e incerto; Eloisa, ragazza appassionata e studiosa, non ancora ventenne è una monaca disperata.

A distanza di dieci anni dalla loro separazione, dopo la donazione del piccolo Paracleto, i due sposi si incontrano e riprendono a vedersi con una certa frequenza e gran conforto, lo confesseranno entrambi. Abelardo, predicatore famoso e affascinante, chiama la folla al piccolo monastero: grazie alle sue prediche le cerimonie si fanno più frequenti, i visitatori numerosi e le donazioni più generose. Ma Abelardo vede soltanto i meriti della sua "sorella in Cristo, Eloisa". "Ella, che per volere del Signore era a capo della comunità, divenne carissima agli occhi di tutti: i vescovi la amavano come una figlia, gli abati come una sorella, il popolo come una madre. Tutti ammiravano la sua religiosità, la sua saggezza, la sua impareggiabile bontà e pazienza (...). In un solo anno ella riuscì a ottenere per il benessere del suo monastero quello che io in cento anni non sarei mai stato capace".

La giovane donna, aveva appena trent'anni, visse allora giornate serene, forse quasi felici: per la prima volta dopo la lunga separazione riascoltava l'insegnamento del suo maestro e amante.

Ma la maldicenza gettava sospetti e disagio sui loro incontri: il vecchio maestro mai amato di Abelardo, Roscellino, lo accusava di "raccogliere denaro con il prezzo del suo insegnamento per portarlo correndo alla sua puttana", di ostentare nel sigillo del suo anello di abate una figura a due teste, di uomo e di donna, in omaggio a Eloisa. La violenza volgare delle accuse e dei sospetti non si adattano al Pietro di quegli anni, mutilato, quasi timoroso, come sarà chiaro nelle lettere che scriverà qualche anno dopo a Eloisa, persino dalla forza del sentimento che la donna ancora gli dimostrava.

Quest'immagine di Pietro, malato, insicuro e infelice, è più verosimile dell'altra dipinta malignamente dal maestro-rivale. Del resto la fama di Eloisa badessa integerrima è confermata più tardi dalla testimonianza di Pietro il Venerabile, abate di Cluny; il silenzio sull'argomento dell'ostile Bernardo di Clairvaux, che proprio in quei tempi visita il Paracleto e che mai avrà una parola contro la donna nel fiume di lettere e accuse che rovescerà poco più tardi contro Abelardo, tutto questo contraddice la maldicenza di Roscellino.

Ma la malignità lascia il segno: è un Abelardo lucido, ma debole ad affermare che "coscienza e buon nome sono due cose differenti: la prima serve a se stessi, la seconda agli altri". La vera risposta alle accuse la ritroviamo nell'autobiografia quando, narrando di quei giorni che avrebbero potuto essere cosi sereni e operosi, con lo stile che gli è proprio, accumula testimonianze autorevoli sulla presenza importante delle donne vicino al Cristo, agli Apostoli e ai Padri. Gerolamo è il suo esempio preferito ed Eloisa si presenterà in una lettera come una "nuova Marcella": occorre ricordare che Gerolamo fu per le sue pure amicizie femminili anche lui bersaglio delle malelingue. Al Paracleto "fra le sorelle che potevo aiutare vegliando su di esse come un padre [ ... ] là mi sentivo meglio, tanto più che la mia presenza sembrava utile, venendo incontro alla loro debolezza". Così scrive.

Una nuova e definitiva separazione era prossima: Abelardo accetta di divenire abate in un monastero lontano. Le lettere che i due, oramai separati per sempre, si scambiarono sono fra le più celebri testimonianze d'amore e di filosofia.

 

 

 

 

                                                                                                                            San Bruno  "Brunone"