Negli uomini primitivi, era sostanzialmente reale la
consapevolezza, di considerare la femmina una divinità che generava nuove
creature, per questo le dee femmine per
millenni, nei pantheon religiosi, furono
le indiscusse signore.
Come testimoniano i
ritrovamenti di statuine dagli attributi femminili esageratamente evidenziati,
e moltissimi disegni e graffiti che riproducono vulve, vagine e seni gonfi di
dee in gravidanza, durante il parto o in allattamento. Anche quando fecero
l’apparizioni le divinità maschili, il massimo della potenza per questa
divinità era il generare la vita da se
stessa, poiché non si conoscevano i meccanismi biologici della fecondazione
come oggi noi li conosciamo. La femmina-dea era riconosciuta come fonte di vita
e assunse una miriade di forme e di nomi, disseminando il suo culto ai quattro
angoli della terra. Alla dea era associato il ciclo lunare e, per analogia con
i cicli rigenerativi delle fasi lunari, la morte era vista come momento
necessario alla rigenerazione della vita. Il seppellire i morti nella terra,
stava ad indicare, venir messi nel ventre della Grande Madre, dalla quale
rinascevano, come avveniva per il ciclo vegetale. Al tempo della Grande Madre essa era venerata
sotto la forma trinitaria di fanciulla, di donna gravida e di anziana, tre
figure femminili che venivano identificate con le tre fasi lunari
mensili.
Uno dei più antichi resoconti di ciò che avveniva nella società matrilineare si
può rilevare nel mito greco di Edipo, il giovane principe aggredisce il re
Laio, suo padre, lo uccide e sposa la regina vedova. La storia, tramanda quella che era una usanza radicata e
cioè che il giovane uccide il vecchio re e ne sposa la vedova, che qui gli è
anche madre, per diventare re. Il mito si può leggere in due modi: Edipo è
realmente il figlio carnale del vecchio re e di Giocasta, che rappresenta
quella che in passato era considerata
Molti credono che il matriarcato fosse una società governata da donne, invece si trattò di una società semplicemente
diversa da quella patriarcale, la quale era ed è fondata sul possesso, il
controllo e l'uso delle donne e dei figli da parte dell'uomo. La società
matriarcale aveva la logica conseguenza dell'adattamento umano all'ambiente,
con una precisa distribuzione dei compiti. All'interno della tribù i gruppi
famigliari erano composti dalla donna e dai suoi figli, maschi e femmine,
queste ultime con la loro prole. La famiglia
matrilineare era composta dalla
matriarca, dai suoi fratelli e sorelle più giovani coi loro figli, i nipoti
della prima generazione, dai figli maschi della matriarca, dalle sue figlie
femmine e dai figli delle figlie ,i nipoti della seconda generazione. I maschi
preparavano e partecipavano alle grandi cacce per procurarsi la carne, che
doveva sostenere il gruppo durante i periodi invernali, mentre per il resto
dell'anno le donne erano in grado di sopperire alle esigenze del gruppo
famigliare con la loro raccolta di erbe, bacche, radici, tuberi, cereali
selvatici e con la caccia di piccoli animali. All'interno di questo ordinamento
le donne in età fertile avevano rapporti sessuali con i maschi che componevano
le famiglie di altre matriarche, ma anche con i maschi del loro stesso gruppo
famigliare.
Nella società primitiva si può affermare che fosse proprio così, la
donna/divinità, e attorno alla figura femminile gravitava il gruppo familiare.
Questo è suffragato dal fatto che le numerosissime rappresentazioni femminili,
neolitiche e seguenti, non esisterebbero se la donna non fosse stata tanto
venerata da spingere i suoi contemporanei a scolpirla e dipingerla con tanta
insistenza, come del resto in futuro, è pensabile che, ci saranno una grande
quantità di statue e dipinti di Madonne con o senza Gesù bambino.
Era la donna, che si incaricava dell'approvvigionamento giornaliero. Fu la
donna che, con il suo contatto quotidiano con la vegetazione, fu la prima a
conoscere le proprietà delle piante, ella imparò a distinguere le piante
venefiche, che portavano la morte, da quelle allucinogene, che ampliavano le
facoltà della mente. Era la donna che per prima seppe entrare in contatto con
il mondo ultraterreno, col mondo degli spiriti e della divinità. Fu la donna
che trasmise il suo sapere all'uomo, oltre a nutrire quotidianamente la sua
famiglia, sapeva come curare le malattie e le ferite. La società matriarcale, a
differenza di quella patriarcale, non sentì l'esigenza di assicurarsi l’uso
esclusivo dell’altro sesso, gli accoppiamenti erano liberi, e neppure sentì il
bisogno di avere la certezza della paternità, dal momento che erano le madri
che provvedevano alla prole. Esse sapevano, ovviamente, che i figli che
partorivano provenivano dai loro uteri, a differenza degli uomini, che non
avevano la certezza della paternità.
Quando il patriarcato prese il sopravvento divenne essenziale, per l'uomo,
assumere il controllo genitale della donna, per avere la certezza che i figli
partoriti da lei fossero stati concepiti attraverso il suo seme. La
società matrilineare durò così a lungo e si impresse tanto profondamente nella
coscienza collettiva che, secoli dopo la trasformazione della società da
matrilineare a patriarcale, ancora sopravviveva l'usanza della trasmissione del
potere attraverso la linea femminile: in Egitto, originariamente, i faraoni salivano
al trono attraverso la linea matrilineare e, nelle dinastie più recenti, il
sovrano cercò sempre di legittimare se stesso sposando la sorella o la nipote
e, a volte, la figlia. Anche l'ultimo faraone d'Egitto per poter regnare, dovette sposare sua sorella
di sangue, Cleopatra.
I millenni che seguirono
però ribaltarono completamente questo stato di cose, una nuova economia, una
nuova società, nuovi popoli che arrivavano dalle steppe del centro Asia e dai
deserti mediorientali, portando divinità guerrieri, la vendetta degli dèi
maschi si preannunciò terribile, relegarono la Grande Dea, passo dopo passo, in
un angolo del focolare e la privarono di ogni potere.
Da DEA MADRE a semplice divinità e poi a Demone.
Il passo successivo dalla sovranità alla deificazione, fu breve, l'uomo-re
divenne un dio, come lo era stata la donna-regina prima di lui.
Nel volgere di qualche millennio (tra il
quattromila e il tremila a.C.) la figura della Dea Madre subì una profonda metamorfosi.
Tanto per cominciare, perse il ruolo di primadonna, e divenne una comprimaria,
dovendo dividere il trono con altri dèi, dagli attributi maschili.
Nella terra tra il Tigri e l’Eufrate, presso i Sumeri, il mito della creazione
narrava che, prima di ogni altra cosa, vi erano le acque primordiali (nelle
quali si può ravvisare il rimando al liquido amniotico) e che da queste acque
cosmiche scaturì Nammu “la madre iniziale, colei che ha dato la vita a tutte le
altre divinità”.
Più tardi, in epoca assira, Nammu divenne Tiamat, la dea delle acque salate del
mare. Ella si unì ad Apsu, il dio delle acque dolci “Al tempo in cui in alto il
cielo non era ancora stato nominato, e in basso la terra non era ancora stata
nominata, Apsu, il primo genitore e Mumma Tiamat, la genitrice, mescolavano le
loro acque” (Enuma Elish, versi 1 - 5).
Timat e Apsu
diedero vita a una popolazione di giovani dèi con spiccate caratteristiche
antropomorfe ed una vita simile a quella umana, ma arricchita dall’inestimabile
dono dell’immortalità. Il clangore di questa schiatta diede però fastidio al
dio generatore, che tentò di liberarsi di loro, ma Tiamat, come ogni brava
madre, difese i suoi figlioli e cacciò Apsu.
Molti anni dopo, il dio solare Marduk di Babilonia, le riservò la stessa sorte,
allontanandola per sempre dal potere e facendo di lei la generatrice di tutti i
dèmoni.
Quello di Tiamat e di Apsu è un mito squisito, nel quale si legge, e non tanto
tra le righe, che Tiamat era la rappresentante terrena della Grande Madre, la
donna-dea venerata sotto molteplici forme in tutto il continente eurasiatico
fino alla fine del terzo millennio avanti Cristo. Una delle numerose
raffigurazioni simboliche della Grande Madre era
Nel periodo in cui il culto della Terra-Grande Madre era ancora vivo essa si
accoppiava con un paredro (Apsu) per generare, dopo di che scacciava il
consorte, ormai inutile, e regnava con i suoi figli.
Poi, sarebbe venuto Marduk, il re-dio dei popoli invasori, nomadi allevatori e
guerrieri provenienti dalle steppe centroasiatiche, apportatori di una nuova
religione di carattere solare, che non accettavano la preminenza del culto
femminile, e che relegarono pertanto la dea nel mondo infero, dèmonizzandola.
Tiamat, infatti, da splendida dea marina, diventa un mostro metà serpente e
metà animale, munita di ali, in pratica l’antenata del drago medioevale
europeo: “Quel giorno, quel giorno lontano (...) quando il cielo si separò
dalla terra, quando il dio An vinse sul cielo, quando il dio An vinse sulla
terra, ed ebbe dato in dote l’inferno alla dea Ereshkigal” (Enkidu e l’Inferno).
Ma, dal momento che per una dea l’inferno non è un luogo ideale per partorire,
se non dei dèmoni, gli Assiri le affiancarono una sorella, che divenne molto
amata e venerata: Inanna (contrazione di Ninn-Anna, Signora del cielo). Uno dei
miti assiri racconta che Inanna discese agli inferi, dove regnava la sorella
Ereshkigal. Nel corso del suo viaggio Inanna dovette privarsi di tutti i suoi
ornamenti, in sette fasi rituali (i sette giorni della settimana? Per inciso,
sette giorni sono la frazione di tempo, all’interno delle lunazioni,
corrispondenti al primo quarto, alla luna piena, all’ultimo quarto, alla luna
nera), per finire poi prigioniera, fintantoché il suo amante, il pastore
Dumuzi, scese a prendere il suo posto. Era infatti compito dell’uomo offrirsi
in sacrificio per assicurare il ritorno di Inanna sulla terra, affinché venisse
rinnovato il ciclo naturale della fertilità. Nel mito è possibile ravvisare gli
ultimi barlumi di ciò che era stato il fulcro della religiosità predinastica
nella terra tra i due fiumi, quando cioè in onore della Dea Madre si
sacrificava annualmente il dio della vegetazione, che
Presso i Babilonesi la dea Inanna prese il nome di Ishtar: si trattava di una
dea ancora potente, alla quale venivano tributati onori pari a quelli degli
altri dèi. Le raffigurazioni di Ishtar sono quelli di una donna giovane e
bella, coronata dalle triplici corna, simbolo caratteristico, presso le
popolazioni mesopotamiche, per designare grande potenza, ed usato, in origine,
tanto per la dea quanto per il dio. E fin qui, almeno, la dignità dei due dèi,
maschio e femmina, era ancora paritaria.
Il fatto che la regalità divina fosse simboleggiata dalle corna, farebbe pensare
ad una immagine taurina, legata alla forza e alla massima virilità, ma qualche
studioso ha avanzato un’altra, suggestiva ipotesi: le corna del toro, molto
prima di simboleggiare la forza bruta, erano il simbolo della falce lunare
(della simbologia taurina si parlerà diffusamente più oltre) ed era pertanto
legato a una potenza femminile, anziché maschile, come potrebbe far pensare il
toro in se stesso (non a caso, la cosmogonia babilonese attribuì a Sin, un dio
maschio, l’emblema lunare, tentando di privare la dea femmina di un attributo
che le era appartenuto fin dalla notte dei tempi).
Inanna-Ishtar era ormai solo una dea tra gli dei, pur conservando ancora potere
sulla fertilità, sulle stalle e sui granai. Uno dei suoi simboli ricorrenti era
il recinto degli animali, a volte rappresentato anche solo dall’asta che vi si
poneva all’ingresso e sostituito, poi, da una stella, alludendo forse a Venere,
la prima stella della sera e l’ultima del mattino (Ishtar doveva accontentarsi
ormai di una stella, che, tanto,
Tra i vari attributi della dea vi era l’altra faccia della fertilità e della
vita, e cioè la tempesta e la morte (concetto duale che si ritroverà poi nelle
Dee Madri celtiche) e pertanto Ishtar presiedeva anche la guerra, insieme
all’amore e alla sessualità. Suo animale simbolo era il leone.
La decadenza della Grande Madre aveva ormai assunto un corso inarrestabile,
Ishtar perse man mano il suo potere, e venne raffigurata con sempre meno corna
sulla corona, come si può vedere nel sigillo di Gudea, mentre il dio sta
comodamente assiso sul suo trono, con gli evidenti simboli del suo potere, la
dea, con una semplice corona (ha solo un giro di corna) gli sta davanti, in
piedi, quasi in atteggiamento deferente, insieme al resto della divina corte.
Infatti, in epoca babilonese si affermò su tutti gli dei e le dee Marduk, il
dio protettore di Babilonia, designato con ben 50 nomi. Col dilagare della
potenza babilonese Marduk divenne un dio sempre più potente e, da semplice dio
di una città, assurse agli onori di principale divinità dell’impero: a lui
venne attribuita la creazione del mondo.
Il gioco era fatto, il destino di gloria della Dea Madre si stava tramutando in
un destino di caduta. E’ da sottolineare
il fatto che più la civiltà si allontanava dalla società di
raccoglitori-cacciatori (prevalentemente matrilineare) e si modificava in
allevatori-artigiani (quasi esclusivamente patrilineare) più le dee (e le
successive diavolesse) perdevano potere e subentravano dèi e dèmoni maschili
dagli attributi morali e fisici sempre più sviluppati, chiaro segno che
economia e religione hanno sempre marciato di pari passo. Comunque, ancora per qualche secolo, le
divinità femminili, anche se demonizzate, continuarono ad esercitare una certa
influenza sulle popolazioni. La grande,
potente, sensualissima Lilitu mesopotamica, ad esempio, era una diavolessa che,
in compagnia della consorella Ardat-Lili e del dèmone Lilu, formava una potentissima
triade.
La radice comune del nome dei tre dèmoni era lil, che significava spirito,
soffio, vento. Erano tutti e tre dèmoni aerei, apportatori di tempeste; Lilitu
e Ardat-Lili, in particolare, sovrintendevano alle tempeste dei sensi, perché
erano dèmoni femmine della lussuria.
Esse colpivano durante la notte gli uomini sposati, ispirando loro
violenti desideri sessuali, senza mai soddisfarli. Le due diavolesse non
risparmiavano neppure i bambini, ma questi, essendo impuberi, non potevano
essere fagocitati da loro, ed allora Lilitu li soffocava nel sonno, mentre
Ardat-Lili li rapiva, mentre erano addormentati, e poi li divorava. Lilitu e Ardat-Lili non conoscevano il
piacere dell’abbandono fisico, per questo motivo, anche se libidinosissime, erano
dette vergini: non avevano mai amato, né avevano mai concepito, e le loro
mammelle non avevano mai dato il latte. La loro lussuria aveva il solo scopo
del godimento fine a se stesso, era quindi sterile ed esse, pur bramandolo e
sollecitando l’uomo a questo scopo, non ne erano mai appagate: erano autentiche
vampire del sesso. Ma, nello stesso tempo, erano anche ribelli alla condizione
matrimoniale e alla procreazione, una sorta di femministe estreme ante
litteram.
Si potrebbe pensare che le due diavolesse fossero repellenti, viste le loro
attribuzioni; invece le raffigurazioni pittoriche e scultoree hanno tramandato,
attraverso i secoli, l’immagine di donne seducenti.
In un altorilievo babilonese in pietra Ardat-Lili è rappresentata completamente
nuda, giovane e bella, il viso seducente, i seni perfetti, il ventre sodo e
rotondo, le lunghe gambe dalle cosce tornite; la ricca capigliatura è
sormontata da una corona con quattro paia di corna, simbolo del più alto
potere; nelle mani regge i nodi della regalità divina; ha sulla schiena un paio
d’ali, testimonianza della sua entità spirituale e, anziché piedi, possiede
artigli demoniaci, che poggiano sulla schiena di due leoni accovacciati. E’
accompagnata da una coppia di civette, creature notturne come lei.
Eppure, nonostante la sua natura infera, si intuisce che l’artista che l’ha
scolpita l’ha amata, perché nulla in lei è orrido o immondo e, a dispetto delle
sue ali piumate e i suoi artigli grifagni, spira da tutta la sua figura, a
distanza di migliaia di anni, il soffio dell’erotismo. Ella era certo un
dèmone, ma viveva ancora in lei tutta la femminilità che nei millenni
precedenti ne aveva fatto oggetto di culto.
Assai diversa dalle conturbanti Lilitu e Ardat-Lili era la terribile Lamashtu,
un’altra diavolessa mesopotamica, desiderosa di maternità ma sterile, la quale
colpiva le sue vittime con violente febbri. Essa aveva fattezze disgustose: il
suo volto era pallido, la sua testa leonina, il suo corpo era peloso, i suoi
denti e le orecchie erano quelli di un asino e il membro (molto probabilmente
una clitoride eccezionalmente sviluppata) simile a quello della pantera. Questo
dèmone femmina ululava e ruggiva come un animale selvatico, reggendo nelle mani
spire di serpenti e sbavando dalle fauci. Come se tutto ciò non bastasse, ai
suoi seni nudi erano perennemente attaccati un cane nero e un maiale, i quali
mordevano ferocemente i capezzoli aridi. Il diabolico spirito femmina aveva una
spiccata preferenza per i bambini e le donne incinte, che faceva regolarmente
abortire strappando il feto dal loro ventre: essendo sterile, era anche
invidiosa delle gravidanze altrui. Nel suo vagolare non disdegnava comunque né
gli uomini, né gli animali e neppure le abitazioni, dove si insediava
volentieri, essendo stata a suo tempo scacciata dalla divina casa paterna, a
causa della sua insopportabile malvagità. Era una diavolessa molto temuta,
soprattutto perché, a causa delle precarie condizioni igieniche del tempo,
faceva strage di infanti, di gravide e di puerpere. Per tenerla lontano ci si
premuniva di amuleti protettivi da portare al collo o cuciti sui vestiti. Su
uno di questi amuleti è stata rinvenuta una formula esorcistica contenente i
sette nomi di Lamashtu: “Figlia di Anu (padre di tutti gli dèi)”, “Sorella
delle divinità delle Strade”, “Clava che fende il cranio”, “Colei che provoca
l’infiammazione”, “Divinità dal volto ceruleo”, “Adottata da Ishtar (era una
delle sue figlie)”, “Nel nome dei grandi dèi che tu sia esorcizzata, spicca il
volo con gli uccelli del cielo”. Se, a dispetto di scongiuri e amuleti, essa si
impossessava di qualcuno, scacciarla non era affare da poco e i sacerdoti
approntavano veri e propri altari accanto al letto del malato, sui quali
officiavano una lunga cerimonia che durava diversi giorni. Sull’altare era
posta la statua in argilla della diavolessa, il pettine, il fuso e un’immagine
di cane nero, che erano tutti suoi simboli, e inoltre, un incensiere con dentro
una spada, acqua di fonte, dodici pani e numerose altre vivande. Per tre giorni
i sacerdoti invocavano tutti gli dèi, in particolare la dea Aruru, protettrice
delle nascite e dei bambini, affinché allontanassero Lamashtu dal paziente.
Alla diavolessa venivano impartiti ordini perentori e veniva trattata come una
schiava, per convincerla che il suo potere era svanito e che doveva obbedire ai
sacerdoti e abbandonare il corpo della sua vittima. La sera del terzo giorno la
statua del dèmone femmina veniva portata al di fuori della casa dell’ammalato,
infranta con la spada, seppellita in prossimità di un muro e infine si aveva cura
di sigillare la buca con farina e acqua impastate. Non sono giunte notizie
sulla percentuale di efficacia di questo esorcismo. Comunque, a dispetto
dell’orrida Lamashtu, l’affascinante Lilitu babilonese doveva aver colpito
l’immaginario ebraico di quattromila anni fa; infatti gli Ebrei la introdussero
nella loro tradizione col nome di Lilith.
Dapprima la diedero in moglie al primo uomo, Adamo: entrambi erano stati
plasmato nel fango primordiale, erano pertanto due creature uguali “Maschio e
Femmina Egli li creò” Genesi 1,27. La prima compagna di Adamo non venne creata
dopo di lui, e nemmeno dalla sua costola, ma nel medesimo istante e dalla
stessa materia.
Forse gli esegeti ebraici ebbero quasi subito un ripensamento e, poiché questa
prima donna era orgogliosa, oltre che disinibita, e non aveva propensione
all’obbedienza ed alla sottomissione, la scacciarono in un luogo arido,
antesignano dell’inferno, dove Lilith, perso il suo ruolo di prima donna e
assunto quello di diavolessa, cominciò a sfornare dèmoni (maschi) a ritmo
vertiginoso.
Al neovedovo Adamo venne accoppiata la più remissiva Eva, dopo avere avuto
l’accortezza di farla nascere da una costola dell’uomo, e non più plasmata
dalla terra, così da toglierle per sempre l’idea di uguaglianza tra i sessi.
Riflettendo su questo mito ebraico è logico chiedersi per quale motivo gli
Ebrei introdussero nella loro mitologia la sostituzione di Lilith con Eva,
anziché ignorare completamente la prima a beneficio della seconda. Si potrebbe
allora avanzare l’ipotesi che, in origine, le tribù che abitavano il deserto e
che veneravano dèi maschi (solari), entrarono in contatto con popolazioni
stanziali, che invece avevano divinità lunari (femminili), il primo approccio
portò forse a matrimoni misti, conservando per un breve periodo la convivenza
di entrambe le divinità (infatti, non pochi sono i riferimenti lunari nella
cultura semita, come il computo del tempo, per citarne uno), ma in tempi
successivi, come accadde in quasi tutto il resto del mondo, gli dèi degli uomini
presero il sopravvento sulle dee delle donne, che finirono la loro esistenza
come diavolesse o spiriti maligni.
La civiltà divenne così maschilista che presso gli antichi Greci le diavolesse
erano scadute al rango di semplici geni femminili, rapitrici di bambini e di
anime di vivi e di morti. Esse erano riunite in un elenco di creature marginali
rispetto al vivido mondo degli dèi e degli eroi greci, ed avevano nomi che
ancor oggi risvegliano solo immagini nefaste: le Arpie, le Chere, le Moire, le
Lamie, le Erinni.
Le Arpi rapitrici di anime, la loro immagine era a volte riprodotta sulle
tombe, nello spiacevole atto di trasportare l’anima del morto tra gli artigli.
Le rapitrici, erano conosciute anticamente in coppia, (ma si ha notizie anche
di una terza, Celeno, la oscura) e il loro operato era riassunto nei loro nomi:
Aello o Nicotoe, la burrasca, e Ocipete, vola svelta. Per nulla avvenenti, il
loro corpo era quello di un uccello con la testa di donna e artigli aguzzi (le
ali piumate e gli artigli riecheggiavano ancora l’antica e bella Ardat-Lili,
senza conservarne, ahimé, l’avvenenza). I Greci ponevano la dimora delle Arpie
nelle isole Strofadi del Mar Egeo. Comunque, dal momento che per i Greci
l’unico destino da riservare alla donna era quello di essere moglie e madre
(con l’opportuna eccezione delle etère, riservate al piacere personale),
neppure le Arpie sfuggirono alla procreazione: il divino Zefiro si unì a loro
ed esse generarono …cavalli! I loro figli infatti furono Xanto e Bailo, che
divennero i cavalli di Achille, e i velocissimi Flogeo e Arpago, cavalli dei
Dioscuri.
C’è una certa somiglianza tra le Arpie e le Chere, che compaiono spesso
nell’Iliade, dove queste ultime rappresentano il destino, che nel momento della
morte porta via dal mondo dei vivi l’eroe. Le Chere erano alate, con unghie
lunghe ed aguzze e, in più, grandi orribili denti bianchi con i quali
straziavano i cadaveri e bevendo il sangue dei feriti, il loro mantello
era tutto chiazzato di sangue umano. La loro funzione non si limitava
esclusivamente a spazzolare i campi di battaglia, ma rappresentavano anche il
destino di ognuno, al pari delle Moire, altre creature mitologiche, le quali
però non erano né violente né sanguinarie.
Una delle immagini più spettacolari delle Chere è quella descritta da Omero:
durante lo scontro che vede opposti Ettore ed Achille, Zeus pesa
Platone considerava le Chere alla stregua delle Arpie: esseri infernali che
insozzavano la vita degli uomini e il popolo, per placarle, offriva loro dei
sacrifici di sangue, non come venerazione, bensì a scopo scaramantico (oggi
molte persone, anche molto religiose e praticanti, si comportano nello stesso
modo, quando adottano atteggiamenti superstiziosi, come fare le corna con le
dita della mano, toccare un oggetto di ferro, gettare il sale dietro la
spalla).
Anche Lamia era assetata di carne umana: era un mostro femmina che rapiva i
bambini e li divorava ed era il racconto preferito narrato dalle balie ai
bambini.
La storia di Lamia era molto triste: originaria dalla Libia, era stata amata da
Zeus, che si era unito a lei numerose volte, così che Lamia aveva partorito
molti figli. Ma la dea Era, gelosa, aveva fatto morire tutti i piccoli man mano
che nascevano, finché la povera Lamia si era rifugiata piangente in una grotta
solitaria e, per la disperazione, era diventata un mostro invidioso delle madri
più felici di lei, alle quali rapiva e divorava i figli. La dea Era, inesorabile,
la privò del sonno, ma Zeus, impietosito, le concesse il dono di deporre gli
occhi e di riprenderli dopo che aveva riposato. A volte si davano a Mormo,
altro dèmone femminile greco, le stesse caratteristiche di Lamia. Più tardi
Lamia divenne più di una e assunse un aspetto giovane e seducente, senza
abbandonare la sua natura demoniaca. Le Lamie, con la loro bellezza, adescavano
i fanciulli e i giovanotti, ai quali succhiavano il sangue. La figura delle
Lamie sopravvisse fino al tardo medioevo, quando furono rappresentate come
esseri ermafroditi a quattro zampe, delle quali le due posteriori munite di
zoccoli e le due anteriori con artigli, un membro maschile, volto e seni
femminili.
Le Erinni, chiamate le Eumenidi, grazioso nome che significava benevolenti,
anche se nulla avevano di benevolo, erano al contrario selvaggiamente crudeli.
Pare che il soprannome servisse a lusingarle e tenerle quindi a distanza, così
che la loro ira non ricadesse mai sul capo di alcuno. Le Erinni erano nate
dalle gocce di sangue cadute sulla terra a seguito dell’evirazione di Urano, il
padre di tutti gli dèi e, in origine, erano tanto numerose che non si conosceva
il loro numero preciso. Poi si diede loro un nome e si fissò la loro quantità a
tre: Aletto, Tisifone e Megera. Sono state ritratte come geni alati, con i
capelli intrecciati di serpenti e torce e fruste nelle mani, che servivano a
torturare le loro vittime fino a farle impazzire. Abitavano l’Erebo, il luogo
più oscuro degli inferi e avevano il loro compito specifico: vendicare i
crimini, in particolar modo quelli contro la famiglia, come si apprende nella
tragica sorte toccata al matricida Oreste. Non solo: esse proibivano agli
indovini e ai profeti di essere troppo precisi nei loro vaticini, in modo che
gli uomini non potessero mai elevarsi completamente dalla loro condizione di
incertezza e non diventassero, quindi, simili agli dèi (dove si legge che la
conoscenza corrisponde alla divinità, concetto presente anche nell’Antico
Testamento).
I Romani ereditarono le Erinni dai Greci e, subendo probabilmente l’influenza
etrusca, che poneva nel mondo infero esseri mostruosi che torturavano i morti,
le collocarono nel loro Tartaro, dove tormentavano le anime dei morti con le
loro fruste e le terrorizzavano con i capelli serpentini.
Lo splendore femmineo della Grande Dea Madre era ormai obnubilato.
Se fosse necessario
dare un'unica denominazione a Iside, a Ishtar, a Venere, a Athena, a Gea, a
Modron, forse Grande Madre sarebbe la scelta più appropriata. Tutte queste divinità,
anche se in modo diverso, rappresentano la Dea Terra, la Madre di ogni essere
vivente; sono il simbolo della natura nei suoi aspetti positivi: la fertilità,
l'abbondanza dei raccolti; e negativi: le tempeste, la carestia. Per questo suo
dualismo, molte antiche rappresentazioni della Dea Madre hanno il volto metà
bianco e metà nero. Ora le rappresentazioni della Dea si trovano quasi tutte in
superficie, ma gran parte di esse erano poste originariamente nel sottosuolo,
dove la presenza delle correnti terrestri si fa maggiormente sentire. Proprio
dalla Grande Madre derivano probabilmente le celebri "Vergini Nere",
le Madonne dal volto scuro venerate in tanti santuari. Le immagini delle
Vergini Nere contraddistinguerebbero dunque luoghi particolarmente legati alla
Dea Terra, gli stessi su cui, da sempre, gli uomini costruiscono i loro edifici
sacri. Individuare il percorso delle suddette correnti terrestri, da la
possibilità di utilizzare al meglio le eccezionali potenzialità, che non sono
una cosa astratta, ma vera e propria energia che pervade l'essere umano,
rafforzandolo e purificandolo.
Il regno misterioso di
Agharti
Mito antichissimo
relativo alla capitale di un misterioso Regno sotterraneo che sorge sul
principale incrocio delle correnti energetiche terrestri, o forse è Agharti
stessa a generare questi fiumi di energia arcana che percorrono tutto il
pianeta e si diffondono in superficie irraggiati dai megaliti, straordinarie
costruzioni risalenti ad epoche remote fatte di enormi blocchi di pietre
disposti in cerchio od in modo prestabilito onde richiamare occulte connessioni
astronomiche e cosmiche. Agharti costituisce il mezzo, immobile ed immutabile,
del Dharma Chakra,
Per evitare che il
male vi penetri, essa è tenuta isolata dal mondo della superficie da vibrazioni
che offuscano la mente e rendono invisibili le porte di accesso: per questo
motivo i non iniziati che l'hanno cercata non sono mai riusciti a trovarla.
Meglio per loro: i comuni mortali che, per una ragione o per l' altra,
riuscissero a varcare uno dei suoi ingressi incontrerebbero lo stesso destino
di un re della dinastia dei Malla che si perse con tutto il suo seguito nelle
immense gallerie, o di un cacciatore che riuscì ad entrarne ed uscirne ed ebbe
la lingua tagliata dai Lama affinché non raccontasse cosa aveva visto. Esiste
un solo popolo che è nato nelle profondità di Agharti e ora vive in superficie,
è quello degli Zingari, che furono cacciati dal Regno sotterraneo. Gli Zingari
conservano la memoria genetica Di Agharti, lo riprova il loro vagabondare senza
fine alla ricerca di una patria che non potranno mai rivedere, e certe facoltà
magiche, come la capacità di predire il futuro e leggere la mano.
Il potere femminile di cui non si parla. Sin dalla propria origine, i
maschi hanno individuato negli aspetti negativi dell’archetipo materno, uno
dei “nemici” fondamentali con il quale era necessario confrontarsi. In questa
loro posizione non hanno mai confuso gli aspetti negativi con l’archetipo
nella sua totalità, la cui potenza è stata sempre fortemente ribadita da Carl
Gustav Jung, fino ad affermare “l’assalto dell’inconscio può convertirsi in
fonte di energia per un conflitto eroico, e ciò assume un tal carattere di
evidenza che vien di chiedersi se l’apparente ostilità dell’archetipo materno
non sia uno stratagemma di madre natura per stimolare il suo figliuolo
prediletto alle imprese più alte”(1) e, ancora, identificando il “regno delle
madri” con l’”eterno femminino” prenatale, il mondo primordiale delle
possibilità archetipiche”, dove assopito sta il ‘bambino divino’, che attende
di divenire cosciente.(2) Il mondo maschile e il mondo
femminile, sembrano voler tornare a dialogare con la potenza dei fenomeni con
cui da tempo ci confrontiamo, offrendo letture in un certo senso
sorprendenti. Il mondo maschile, sorprendentemente tace. Le
donne detengono due veri poteri. Il
primo è il potere ideologico, cioè, morale, di autodefinirsi il Bene
assoluto. Un anno fa il governo europeo ha promulgato una legge, suggerita
dalle lobby delle femministe europee, fedeli alla sexual corretness
americana, che condanna la molestia in un modo così esteso da includere
parole e sguardi. Una legge mai dibattuta nei vari stati, il potere politico
maschile non ha osato obiettare, perché non fosse sospettato di difendere gli
stupratori. L'altro potere, non è mai stato evocato dalle femministe e
non ha un contropotere, perché è totale e assoluto,quello della riproduzione.
Oggi una donna dice, sarai padre se io voglio e quando lo voglio. Il potere
dell'uomo occidentale nell'ambito della procreazione è quasi azzerato. Con la
fecondazione in vitro poi il corpo maschile è abolito, pressoché inutile, il
potere dell'uomo è diventato limitato, quello delle donne illimitato. Oggi l'ultima novità,dal
campo scientifico, viene dal Giappone, dove sono riusciti a far procreare una
topolina senza il seme maschile,cioè da due ovuli femminili,il maschio non
serve più! Come noi sapevamo, solo in alcuni casi in natura succedeva, per
esempio nelle rane.
(1)C.G.Jung,Opere,vol.5p.296 |